Tratto da una storia vera vissuta a 12mila km da questa scrivania.
Necessarie 15 ore in un cilindro metallico con le ali per raggiungerne il set cinematografico. Nonostante i 900km/h è servita un’intera serie di “Friends” per passare il tempo a 10mila metri sopra il Monte Bianco, poi Barcellona, l’Atlantico, l’intero continente di Colombo per, infine, poggiarsi sulla terra di vini, prugne, mandorle e surfisti.
Il non-film, girato in tre settimane ad ottobre 2022, racconta di tre ragazzi approdati nel nuovo continente non per le onde dell’oceano ma per quelle di granito.
Raffo, aspirante Guida Alpina, fisico Californiano in linea con i locals, è portatore di sicurezza e velocità in parete ma, cosa più importante, è l’anima di ogni festa.
Gerry, ingegnere della Val Gerola, è tesoriere di esperienza, un modo democratico per dire “l’anziano” del gruppo. Il suo titolo di studio spicca nella conoscenza dei materiali da scalata e a lui spetta la responsabilità del fornello a benzina dalla dubbia sicurezza.
Io, Marco, mezzo ingegnere, sono il terzo, al mio primo timbro sul passaporto. Responsabile cucina, testa di sfondamento nei tiri esigenti, difensore dello stile light and fast e moderatore del grado alcolico del gruppo.
Mi piacciono i numeri. Il 28 in particolare. Camp 4 non è molto grande e troviamo subito la nostra piazzola con queste due cifre stampate sulla bear box, ovvero la mitica scatola metallica anti-orso che diventerà dispensa, magazzino, frigo e cantina. La 28 è in posizione strategica tra i bagni, inaspettatamente pulitissimi, e il boulder più famoso, ed ora unto, del mondo: Midnight Lightning. Impossibile non attirare l’attenzione dei passanti; alcuni solo per due chiacchiere, altri per chiedere in prestito sale o dentifricio, altri per passare insieme una, due o più serate, dalle più tranquille a…
Sì, nella recensione ometterò molto per non togliere la curiosità verso il non-film.
I trend topic con gli ospiti stranieri sono sempre due: cibo e arrampicata. Non così slegati secondo quanto afferma la Tigre di Campovico: “L’arrampicata è l’intermezzo tra colazione ed aperitivo”. Proprio questo rito è immancabile al rientro di ogni scalata, ma che ne sanno gli americani! Abbiamo dovuto insegnargli anche questo. Birre e patatine affogate nella salsa con ancora le mani intrise di magnesite, mentre l’acqua bolle e si prepara il sugo. La semplicità di una aglio, olio e peperoncino conquista palati con bandiera messicana, spagnola e tedesca, nonché ci riporta alla nostra amata terra. Ci si riempe il cuore con una immancabile e parsimoniosa grattugiata di Parmigiano del nostro main sponsor Pietro.
I primi giorni volano in un misto di occhi chiusi per il fuso orario e gli stessi spalancati su pareti immense, sequoie giganti, coyote, scoiattoli, macchine e camper sovradimensionati. Una giornata in falesia e una vietta tranquilla ci predispongono al Rostrum. Che via! Logica sequenza di fessure verticali di ogni misura; dalle dulfer da correre alle temute off-width da cardiopalma. Solo otto tiri che, uniti al caldo asciutto e ventilato, ci conducono sfiniti in vetta e, poi, alle necessarie birre per reintegrare.
Rest day: sveglia comoda, colazione con pancake e sciroppo d’acero, momento social e chiamate con il Wi-Fi del bar, doccia, pranzo con verdure, passeggiata pomeridiana, spesina e organizzazione del giorno seguente. Dopo il pranzo ho omesso: caffè con visita di mamma orso con tre cuccioli.
Consumiamo le suole su un paio di vie più tranquille e ci sentiamo pronti per l’Half Dome. Questa parete nord, simbolo della scalata americana, è perfetta per sfuggire al caldo di questi giorni. Gerry legge sulla guida: “sconsigliata a cordate da tre”. Non ci scoraggiamo e partiamo fiduciosi nel nostro stile alpino. Un paio d’ore tra corde fisse, pietraie e cespugli, che definire poco simpatici è forse troppo educato, ci portano alla base della parete.
Ci godiamo una cenetta al tramonto; vista la mia scelta alimentare divoro una scatoletta di soli fagioli annusando il profumo di pollo al curry delle buste degli altri. Ci imbustiamo per la notte sotto una stellata pazzesca, sperando che il nostro odore tenga lontani gli orsi curiosi. 5.30 si attacca con la luna piena in un’atmosfera surreale. Nessuna ripresa HD potrebbe rendere questa luce. Corriamo verso la cima passando per fessure, tratti di artificiale e inquietanti camini.
Il ronzio delle api e il borbottio del mio stomaco ci accompagnano anche nel tiro della mitica thanksgod ledge; la cengia larga quanto un piede divenuta famosa per la foto di Alex Honnold: in piedi, slegato e faccia a valle. Dopo 24 lunghezze timbriamo la vetta alle 17.30 e via verso il basso per gli assurdi cavi della via normale. Passiamo a recuperare gli zaini e, perdendoci un po’ tra fisse e canali, arriviamo nel fondovalle nel buio più totale. L’ultimo bus della giornata ci risparmia qualche miglio di asfalto, nonché ci offre una performance musicale del folle autista decisamente notevole. Alla mitica piazzola 28 un gruppo di messicani ci accoglie con birre e quesadillas. Il resto della serata è storia…
Un giorno di riposo è necessario per riprendersi dalla festa e toglierci la sabbia raccolta durante la discesa.
Con le batterie cariche bruciamo diesel a bordo della nostra Edge targata 9A e altre cifre. La strada sale dolce per due ore fino a Tuolomne Meadow; area boschiva costellata di cupole granitiche a circa 2000m. Nonostante la quota e l’esposizione a nord, scaliamo tutto il giorno in felpa lungo Lucky Strike, bellissima e piacevole via interamente da attrezzare. L’altopiano merita una visita per la roccia costellata di quarzi e funghi incredibili, per il lago di Tahoe e per il panorama senza confini.
Rest day passato tra bucato e corsetta sotto il Capitan. Parete tanto grande quanto stupenda da ronzarmi in testa in continuo. L’idea di salire quei mille metri di granito perfetto mi fa sudare le mani e credo generi lo stesso anche nei centinaia di turisti che osservano attraverso il binocolo gli arrampicatori come pesci in un acquario. Ci consultiamo, ma il caldo non ci convince: vorremmo evitare tre giorni in parete a cuocere come uova. Alcuni dicono che lassù sia ventilato ma noi puntiamo a scalare in libera e non a tirare friends e corde fisse! Per farlo servono condizioni migliori. Ma vogliamo salirlo!
Ore 7.00 camminiamo verso l’attacco della West Face, scelta logica per stare al fresco. Via stupenda aperta dal mitico Warren Harding e compagni nel 1961. Percorre la ovest del Capitan unendo diedri, fessure e placche a funghi, a volte grandi come padelle. Nonostante un pendolo imprevisto, rispettiamo la tabella di marcia e tocchiamo quei pini rinsecchiti della vetta con il sole calante all’orizzonte. Una stretta di mano più silenziosa del solito per non rompere la magia. La cima del Cap ti toglie il fiato, penso alla storia delle prime salite, a Lynn Hill, alle solitarie di Honnold, ai record di velocità dei fratelli Huber e all’incredibile Down Wall firmata da Caldwell. Arriviamo al baretto prima della chiusura, che qui è alle 20.30 (!?), per un sano giro di patatine fritte annegate nella salsa barbecue.
Ci godiamo il giorno successivo appagati di tutte le vie percorse, ridacchiando di come la nostra cordata da tre sia sempre stata fonte di dubbi e risate, alla faccia degli americani! Senza offesa ovvio.
Abbiamo ancora qualche giorno e il sole splende sempre. Buttiamo la statica appena sotto la strada e, pochi metri dopo, siamo alla base della mitica Separate Reality! Anche questa è storia, salendola abbiamo il cuore a mille e la testa che pensa alla foto di Gullich slegato su questa perfetta fessura a tetto, sospesa sul Merced River.
La stessa sera siamo noi ad accogliere con una birra gli amici Messicani di rientro da una tre giorni sull’Half Dome che un pochino ci aveva fatti preoccupare. Attorno al fuoco l’atmosfera è magica e veniamo iniziati alla tradizione stelle e strisce degli S’moor: marshmallow infilato in un legnetto e cotto sul fuoco per poi finire tra due biscotti e un pezzo di cioccolato. I nostri tre sguardi si incrociano mordendo quel boccone appiccicoso come per dire: bella tradizione ma per fortuna esiste San Tiramisù.
Arriva sabato 24. Il cielo coperto e il gracchiare di nere cornacchie ci accompagnano nello smontare il campo base e impacchettare tutto con l’obiettivo dei 23kg per bagaglio. Saliamo in macchina, fuori piove e qualche goccia casca anche dai nostri occhi. Spezziamo il viaggio da Denny’s, un fast food decisamente sopra le aspettative e, qualche ora dopo, siamo nel tanto decantato Rei. Un paese dei balocchi per ogni sportivo, sembra Natale ma il portafoglio e il limite di peso delle valige frenano alcuni desideri.
San Francisco ci regala una bella serata con cena a China Town e giro di locali prima di cacciarci in ostello e, dopo tre settimane, in un vero letto. Ultima colazione con pane chimico, burro d’arachide e caffè annacquato; tranne per Gerry che, pigiando il bottone sbagliato, allaga il bancone guadagnando lo sguardo di fuoco della cameriera. Passiamo la giornata tra le salite di questa città, un po’ di gamba prima di trascorrere ore legati ad un sedile. “1200 kcal” dice l’etichetta di ogni fetta di torta che prendiamo al Cheesecake Factory ma ce la godiamo senza rimorsi. Ultimo costoso brindisi in aeroporto e ci imbarchiamo. Crollo sul sedile poco dopo il decollo così come Gerry e Raffo; compagni di un’avventura incredibile dall’altra parte del mondo. Solo un buon caffè espresso a Barcellona ci sveglia dai sogni e mi chiedo se tutto ciò sia successo davvero o sia stato solo un film. In ogni caso, una pellicola che consiglio a tutti di vedere o, se possibile, vivere.