di Simone Pedeferri

Inverno, il bar è affollato, mentre servo le solite birrette post boulder serale alla comunità di scalatori della valle, una voce mi dice: “Secondo te questa roccia è buona da scalare?!”
Mi giro, la domanda arriva da Fede (Federico Cucinotta), punto gli occhi sul suo telefono convinto che sia l’ennesimo sasso attorno casa che già conosco e, invece, mi mostra una parete stranissima. “Boh”, rispondo con le mani aperte!
Subito gli chiedo: “Dove si trova?”
“In una zona desertica della Tunisia.”
“Come cavolo fai ad avere una foto di questa parete così lontana?”
E Fede continua: “Mio padre è da un po’ che abita in Tunisia e un giorno, in un suo solito giro nel deserto, l’ha vista. Anch’io ci sono passato anni fa con lui ma non ricordo che qualità avesse la roccia e se fosse possibile scalarla.
“Ok, allora recupera altre foto che provo a dare un occhiata per farmi un’idea migliore.”
Alcune settimane dopo arrivano qualche foto e qualche filmato in più, controllo il tutto ma la risposta alla domanda “sarà buona la roccia?” è sempre la stessa: “Boh!”
Parlo con Fede e Max (Massimiliano Piazza) e, se ci crediamo davvero, l’unica soluzione è partire, esplorare, e accettare ciò che dovessimo trovare: magari un gran posto o magari un rottame. Due possibilità che, con le poche informazioni a disposizione, ci saremmo giocati cinquanta e cinquanta.
Angelo, papà di Fede, e sua moglie Hager ci avrebbero fatto da contatto e logistica, avendo loro un agenzia di tour per il deserto, la Capsu180. Tutto sommato sembrava un ottimo piano esplorativo, avventuroso, e magari ci sarebbe scappata una bella scalata.
Ma i piani non sono sempre così veloci da realizzare come nei sogni, la realtà è spesso diversa, i ragazzi sono sempre impegnati e trovare un momento che vada bene per tutti è un’impresa.
Tre anni dopo, sempre al bar dico: “Max, Fede, dai! O si parte questa primavera per la nostra parete Tunisina o ci sfugge.”
Fede: “Primavera ok, aprile andrebbe bene anche ad Angelo.”
Mentre ne parliamo sentiamo un: “Ci sono anche io per quella data!” Si aggiunge così anche Luca (Luca Casanova). Perfetto, la squadra è formata, e la parete? Si vedrà…

Atterriamo verso mezzogiorno a Tunisi dove incontriamo Angelo, sceso qualche giorno prima in jeep con tutto il materiale. Prendiamo la seconda macchina e via per 4 ore verso un paesino al confine tra Tunisia e Algeria dal nome impronunciabile Kalaat Sinan sormontato da una montagna dal nome Jugurtha, un pochino più pronunciabile.
Arriviamo in paese col buio dove conosciamo la nostra guida Slim Askri, affidataci dalle autorità tunisine dopo la nostra richiesta per scalare. Siamo al confine con l’Algeria e c’è molto contrabbando di qualsiasi cosa; ci spiegano che siamo obbligati ad avere una persona che ci controlli, vista anche la nostra richiesta “particolare”. Qui la scalata non è un’attività nota, quindi un supervisore è lecito e giusto. Facciamo il giro delle caserme per le varie registrazioni e, dopo la tradizionale cena bella piccante, via verso casa. Nel breve tragitto vediamo solo la sagoma scura di Jugurtha e la curiosità cresce sempre di più, ma dobbiamo aspettare l’indomani.

La mattina via di corsa. Per tutta la squadra il programma è di controllare tutto il controllabile per capire se questa benedetta roccia sia veramente scalabile o no.
La nostra guida arriva col solito ritmo Tunisino e subito gli chiediamo tramite Angelo, unico a parlare bene il francese, mentre noi quattro capre facciamo su e giù con la testa: informazioni sul posto, se qualcun altro avesse mai scalato, come sia la roccia, l’esposizione ecc…
La nostra guida ci prende per folli… In più le sue risposte sono vaghissime, il che non fa altro che accrescere la nostra curiosità.
Meglio verificare di persona salendo a questa parete a 5 km di macchina dal paese, così vediamo in che avventura ci stiamo imbarcando.
Arriviamo a tiro della roccia, scendo velocissimo, devo vedere come caspita sia. Incredibile! Sono a 20 m dalla strada e la parete si alza per 100 m, perfettamente verticale, bianca, e non sembra nemmeno male… “Forse abbiamo fatto 100!” Dico guardando i miei compagni, erano anni che volevamo capire come fosse questa roccia.
Dal parcheggio cominciamo a camminare per i primi controlli, ci consultiamo, e decidiamo di fare il giro dell’intero massiccio, spacciato per lunghissimo dalla nostra guida.
Lui ci guarda: “Non prendete acqua?”
Io: “Ma sì, sono due passi, non è mica il Changabang.”

Costeggiando il primo tratto di parete fatto di un labirinto di sassi enormi caduti da essa, mi sono detto che se fosse stata tutta così saremmo stati fregati. Poco oltre, per fortuna, il terreno è migliorato facendoci tirare il fiato, ma Slim, schiacciando in continuazione una bottiglia di plastica che teneva in mano, mi sembrava sempre nervoso probabilmente poiché non capiva cosa diavolo stessimo cercando. Senza badarci troppo ci infiliamo in qualsiasi angolo di parete che troviamo, avari di scovare la linea perfetta, quella che in ogni viaggio di arrampicata sogni di incontrare.
Fine della giornata, tiro le somme: la roccia passa da zone molto marce ad altre mega compatte, quasi lisce, e cambia da esposizione ad esposizione, in fin dei conti qualcosa di buono da chiodare c’è, forse per ora non la linea dei sogni. Angelo è sollevato di non averci fatto venire qui per nulla.

Il giorno dopo decidiamo di chiodare un grosso sassone che diventerà poi il settore Hammam. Sembrava la parete migliore anche per Luca e Fede per incominciare l’apprendistato.
Ma Slim ci dice: “No, voi avete presentato un progetto giornaliero e, come indicato, per due giorni non potete far altro che esplorare. Il permesso per scalare inizia dopodomani.”
Noi restiamo basiti ma troviamo un sistema “all’italiana” per aggirare il problema: “Certo, domani non scaliamo ma chiodiamo per capire la qualità della roccia, quindi è esplorazione!”
Il ragionamento convince la nostra guida che ci dà il via libera.
Passiamo i tre giorni successivi tra chiodatura e qualche veloce scalata. Per Fede e Luca il pacchetto di incertezze ed errori delle prime chiodature è completo; soprattutto per Fede che vince una zona del masso che respinge i fix. Li tengo d’occhio, mi fanno ridere, cerco di trattenere le battute da bastardo ironico ma proprio non ci riesco; del resto anch’io quando ho iniziato sono stato preso per il culo, sono i ricordi più belli che porterò sempre con me.
Nei primi giorni abbiamo anche l’occasione di continuare a scoprire Jogurtha, immersi nella sua natura selvaggia.

A questo punto una precisazione è d’obbligo: il più preoccupato per eventi naturali, catastrofi, ed animali vari è sempre Max. Una costante della vacanza sono stati i cani pastore che scorrazzano per tutto l’altopiano in branco, puntandoti “incuriositi”. I pastori difficilmente li richiamano e le due soluzione spiegate anche dalla nostra guida sono: o gli giri distante o, se si avvicinano troppo, li prendi a sassate, qui fanno tutti così. Max ne era terrorizzato.
Durante una pausa io, Max e Slim siamo andati a controllare un masso e lui continuava a schiacciare morbosamente la solita bottiglia di plastica così da chiedergli il motivo. La sua risposta ha decisamente tranquillizzato Max: “La montagna è piena di vipere.”
Io dico: “Max ma stai tranquillo, è un modo di dire.”
Slim invece ci fa capire che è proprio piena! Anche dove stiamo chiodando ci sono tane, ce ne mostra una proprio dove Max aveva appoggiato lo zaino, e dopo un attimo ne prende una vicino al mio materiale. Da quel giorno tutti noi con i bastoncini abbiamo iniziato a fare sempre rumore per allontanarle, impallidendo al pensiero degli scorsi giorni passati ad esplorare senza farci caso.
Poi, per tranquillizzare Max, Slim aggiunge che, oltre alle vipere, la zona è piena di lupi ed io, ancora col mio solito ottimismo, pesavo a qualche lupo lontano km. Invece ci fa vedere le tane vicino a dove chiodiamo, dicendo che di giorno è difficili vederli e che, nonostante siano schivi ed evitino l’uomo, è comunque meglio non incontrarli. Chi sarà mai l’unico ad incontrarne uno a metà della spedizione? Ovviamente Max! Mentre noi stavamo piazzando le soste sulla seconda falesia l’abbiamo sentito urlare e urlare mentre il lupo, più spaventato di lui forse per non aver mai visto un brasiliano, è scappato velocissimo.

Terminare il primo settore con i ragazzi è stato un lento lavoro, poiché per metà della squadra era tutto nuovo: calarsi su terreno inesplorato, leggere la via, immaginare dove mettere i fix, togliere la roccia marcia, pulire gli appigli, ecc… Ammetto che le vie non erano proprio facili come prima esperienza e, in fin dei conti, sono stati molto bravi.
Invece il secondo settore ci ha richiesto molto meno poiché la squadra era ormai settata. “Qualcuno dall’alto” ci ha visti fin troppo bravi e nel chiodare il terzo settore ha pensato di introdurre un altro ostacolo, soprattutto al buon Max: vento Patagonico a 60 all’ora! Giuro che ne ho preso in Patagonia e questo non era da meno, ma non abbiamo mollato; poi ha cominciato a piovere ma eravamo semi riparati così abbiamo continuato; dopo un po’ tuoni e fulmini. In quel momento Fede e Max stavano chiodando e hanno avuto qualche dubbio sul da farsi; ironicamente gli ho consigliato che l’importante fosse tenere il trapano con la punta verso il basso per evitare che facesse da antenna. Poi sempre più freddo finché non ha cominciato a scendere dal cielo una cascata di palline; ho pensato fosse sabbia e che la parete si stesse smontando, ma poi guardo meglio e mi accorgo che è grandine. Grandine nel deserto! Forse il segno di correre in ritirata e tornare a finire il giorno dopo.
Raccontare tutto quello che ci è successo sarebbe una storia troppo lunga. Devo ammettere che i miei compagni sono stati bravi nel sopportarmi nella mia visione di spedizione “alla Russa” che impone di non mollare mai. Anche quando è buio e si è distrutti bisogna continuare, finire qualcosa, o fare un tentativo su una via. Penso che a loro questa visione sembri un po’ estrema e li posso capire ma, con così poco tempo a disposizione, se non avessimo spinto sull’acceleratore non avremmo attrezzato una ventina di tiri in 3 settori dal 6a al 8a+. Sono stati proprio bravi e, pur senza rendersene conto, trovare un posto come Jogurtha, senza una via, ed essere i primi a metterci mano è stato un vero regalo della natura. Ci siamo divertiti un botto vivendo mille situazioni da ricordare. Questa è la cosa più importante in un viaggio.
Per me e Luca i 10 giorni erano finiti e siamo rientrati in Italia, mentre Angelo, Fede e Max hanno continuato verso sud esplorando il deserto e le sue dune per altri giorni.

Così Max ha potuto continuare i suoi amati incontri ravvicinati con animali di ogni sorta: il suo sogno era imbattersi in un cammello, e così è stato.




Voglio ringraziare Angelo e sua moglie Hager per il supporto logistico, gli innumerevoli trasporti di materiale con la jeep, e le ottime colazioni e cene; senza il loro supporto e le foto di Jogurtha questa esplorazione non sarebbe stata possibile.
Ringrazio inoltre il Gruppo Ragni per il suo immancabile supporto.
di Simone Pedeferri