di Marco Zanchetta

Essere leggendario, mitologico o reale? Un animale strano lo Squalupo: quattro zampe, testa da squalo, lunga coda e folte ciglia. Senza averlo mai visto la sua presenza ci ha accompagnato per tutto il viaggio.
Avventura iniziata il 22 gennaio con mio papà che trascina verso il check-in il saccone da 23kg, molto teorici, prima di salutarci. Un abbraccio a me e una sobria stretta di mano a Gerry, già protagonista del viaggio del 2022 insieme a Raffo, Raffaele Tangari, fonte di ispirazione del non-film “Yosemite 28”. All’anagrafe Domenico Mottarella, Gerry è un ingegnere nato e cresciuto nella terra del Bitto, la Val Gerola, amante del granito, della taragna e, da poco, del parapendio.
Gli occhi corrono tra tabelloni e cartelli nell’enorme Terminal 1 finché, con grande sollievo, troviamo il nostro volo “Latam 8073”, compagnia a noi sconosciuta tanto da dubitare fino a quel momento della sua esistenza!
Sudiamo freddo all’imbarco dei bagagli, palesemente fuori peso e oltre misura ma, con un paio di battutine, le hostess si convincono a spedire tutto, perfino i due “10kg” da caricare a bordo. Passiamo i soliti controlli passaporti e dopo una doccia di raggi X siamo pronti all’imbarco. Il menù prevede: volo a Madrid come antipasto, a seguire 11 ore fino a Santiago e, come dessert, un paio d’ore fino a Puerto Montt, dove arriviamo nel primo pomeriggio. Sospiro nel veder comparire sul nastro anche l’ultimo dei bagagli che buttiamo sul primo taxi disponibile direzione Puerto Varas, splendido paesino sul lago baciato dal sole. Sì, l’aria è calda e il vento è piacevole, che bello passare l’equatore quando neve e gelo abbracciano la Valtellina.
Lista della spesa alla mano spingiamo il carrello riempiendolo di: pasta, sughi, ceci, tè, biscotti e gli indispensabili caffè e birre; 24 lattine per 18 giorni, basteranno? Togliamo l’ansia del viaggio e il relativo sudore con l’ultima doccia calda dell’ostello prima di goderci una torta gigante per iniziare, un aperitivo appena dopo e una sobria cena dove Gerry si gode l’ultima tagliata di manzo.
Cioccolato, panna, crema e pan di spagna per un totale di 1200 kcal a fetta è la giusta colazione prima del trekking per il cuore di questa avventura. Un paio d’ore di taxi ci portano alla fine di una sterrata brulicante di alpinisti, escursionisti, cavalli e gauchos tra i quali troviamo il nostro. Christian, cappello tipico, stivali e coltello alla cintura, pesa meticolosamente i sacconi e le due borse Ikea di viveri. 60 kg per ciascuno dei due cavalli; restano fuori una cassa di birre, che metto volentieri nel mio zaino, e l’enorme tanica di benzina per il fornello. Ebbene sì, il buon Gerry, non trovando quella bianca, ha dovuto prenderne 4 litri dal benzinaio ma in una tanica da 25, unico contenitore disponibile!

Ci registriamo al centro visitatori tra i sorrisini delle volontarie prima di scomparire nella foresta dove corriamo leggeri tra radici, fango e guadi per 13 km di pura gioia, finché… Pareti a destra e a sinistra, granito ovunque, diedri e fessure che corrono fino al cielo blu. Questo è il motivo del nostro attraversare l’Atlantico. Questa è la Valle di Cochamo!
Lyonel ci accoglie nel campeggio con un classico “my friends!”. Lo seguiamo tra le tende nel solivo prato fino ad addentrarci nella ombrosa e umida foresta dove ci indica alcune piazzole libere “degli scalatori”. Incrocio gli occhi sconcertati di Gerry e subito contrattiamo per stare nella zona “borghese” del campeggio. All’imbrunire, con la solita calma sudamericana, arrivano i cavalli e in un secondo la nostra casa di rosso telo ed alluminio è montata. Tra una forchettata di pasta e l’altra scegliamo la via che ci farà da battesimo l’indomani e, fatti gli zaini, ci imbustiamo nei sacchi a pelo.

Le gambe, fresche delle ore di inattività in aereo, vincono la gravità prima tra ripide radici e poi per un canale franoso fino alla base della via dove sventola una bella corda fissa. Una biondina ci saluta dicendo che, proprio oggi, filmeranno per uno spot. Che sfiga! Parto gasato sul super diedro della via a fianco, sperando che i pochi friends all’imbrago bastino. Vengo subito smentito, la fessura è anche bagnata e, dopo un po’ di yoyo per recuperare i pezzi necessari, giungo in sosta, esausto. Il benvenuto è servito!
Una calata e ripartiamo su “Al Centro y Adentro”, la via da programma, ora libera da corde e cineprese, e ne godiamo qualche tiro prima di ritenerci soddisfatti e galoppare verso valle, non senza prima risalire per ben due volte le corde incastrate. Che culo!

Con gli ultimi raggi ci “godiamo” la prima doccia gelata, di quelle che ti anestetizzano il cervello, prima di dividerci una Quilmes, classica birretta in lattina, e sbranare riso, patate e fagioli.
Altro giorno, altro attraversamento del fiume, altra bella via e, per concludere, terza corda incastrata. Che sfiga!
Stupiti della mancanza di indicazioni sui tempi dei sentieri sperimentiamo l’usanza comune di salire la sera prima con ritmo sud-americano per bivaccare sotto la parete. Nonostante la piadina sullo stomaco inseguo Gerry in questa gara di trail e in nemmeno due ore siamo all’attacco. E ora? Come facciamo a tirar notte? Lo sorprendo sfoderando dallo zaino una lattina che gli illumina gli occhi; l’aperitivo è servito. Magra consolazione alla seguente pasta smontata alla “Pomarola”.
Sveglia presto ma non abbastanza da anticipare una coppia di Statunitensi con la nostra stessa via in mente: “Las Manos del Dia”. Li inseguiamo su placche, fessure e diedri eccezionali finché iniziano a scalare le marce fino a tirare il freno a mano. Ad una manciata di tiri dalla fine ne ho abbastanza di stare in coda e buttiamo le doppie.
La maledizione degli eterni secondi continua il giorno dopo quando partiamo appena dietro a due Brasiliani. Stessa scena del giorno prima ma il sole cocente amplifica il mio disagio. Mi sento come un pollo allo spiedo e l’unica mia salvezza è mettere la felpa come un mantello. “Smettila di lamentarti!” urla giustamente il buon Gerry ben 40 m sopra di me. Solo il ricordo di una frase del “Vecchio”, Simone Pedeferri, mi strappa un sorriso: “Velocità di crociera? Come la Costa Concordia incagliata”. Ma questa è un’altra storia… Il disagio termina solo quando non vedo più la suola delle scarpette dei brasiliani: “cumbre” del Trinidad Norte! Panorama incredibile con vulcani innevati all’orizzonte e il campeggio laggiù, troppo lontano per pensarci.


Il sole batte sulla tenda indicando che sono almeno le 9 del mattino. Che dormita! Finalmente il tanto atteso giorno di “descanso”. Colazione, caffè e ancora caffè per allietare le chiacchierate in un mix tra italiano, spagnolo e inglese con chiunque passi nel raggio di due metri dal tavolo. Gerry si palesa un paio d’ore dopo poggiando sul tavolo una penna e un quadernino. Dietro la copertina arancione la sua ragazza ha incollato una bellissima foto della valle con nel mezzo “Bienvenidos a Cochamo” e in un angolo uno strano disegno stilizzato. E’ il mitico Squalupo! Essere reale o leggendario? Due zampe da canide e due da pesce, una lunga coda e una testa che unisce un lupo ad una creatura marina, solo quelle strane e lunghe ciglia destano qualche dubbio sulla sua origine e, soprattutto, sulla sua sessualità. Ma come le è venuto in mente questo essere? Mi spiega essere frutto di un momento di noia durante un corso di grafica, quei momenti in cui apri il caro e vecchio “Paint”, probabilmente noto solo ai nati prima del 2000, e con il mouse ti lasci andare alla fantasia.
Così come lei ha lasciato che la mente tracciasse un segno sullo schermo, io e Gerry lasciamo che la penna scriva ogni pensiero ed aneddoto che ci frulla per la testa: quanti caffè bevuti, doccia sì o doccia no, le avventure del cane a tre gambe del campeggio e gli strani versi di esultanza dei brasiliani in parete del giorno prima. Un diario di cagate insomma.
Vuoi non fare due passi per digerire le piadine del pranzo? Due ore a piedi rendono il nostro riposo molto più attivo del previsto e ci permettono di sbirciare una valle da noi ancora inesplorata.
Percorriamo lo stesso sentiero il giorno dopo e mi basta la prima salita per ruttare il pranzo a patate lesse e maionese e per dire: “bell’idea di m. correre ieri!”. Il trattore di Gerola ride e mi tira il collo fino al bivacco, il solito sasso umido, nel cuore della Paloma Valley. Salutato il sole l’aria diventa subito satura di umidità mentre gusto della pasta con fagioli rossi e “salsa Alfredo” da farmi sentire le urla indignate di mia nonna e di tutti gli italiani.
Febbraio ci accoglie con sacchi a pelo bagnati e un porridge davvero insapore e difficile da digerire tanto quanto il primo tentativo su una via gelida e bagnata. Fallimento numero 1.
Ci spostiamo su una parete al sole dove i primi metri bagnati mi danno la sveglia. Proseguo, fiducioso di quanto ha detto Gerry guardando la via dal basso: “mi sembra asciutta”. Il mio ottimismo muore quando oltre al bagnato inizio a lottare con muschio e toppe d’erba che chiudono la fessura. Trovo un chiodo, si muove, metto un friends nella terra e proseguo consapevole di aver passato il punto di non ritorno. Con il cuore a mille scalo scavando con il cavanut per mettere delle protezioni, sempre più precarie, verso la sosta 10 metri più sopra, mia unica salvezza. Gerry mi assicura pietrificato dalla paura e dal freddo di quel nevaio da cui siamo partiti. “Sostaaaaa!” La tensione di un’ora di battaglia si scioglie mentre preparo le corde per calarmi. Fallimento numero 2.

Svuotato provo a ricaricarmi mangiando frutta secca al sole mentre i primi turisti arrivano a toccare la neve come se fosse un miracolo dal cielo. Ma come diavolo fanno a salire questi sentieri decisamente troppo tecnici per il 90% degli escursionisti italiani? Ci incamminiamo con lo sguardo rapito dalla bellezza del Trinidad dalla parte opposta finché non ci cade l’occhio su un diedro perfetto appena sopra il sentiero… Wow! Vorrei fare lo zoom toccando le lenti con pollice ed indice ma devo accontentarmi dei naturali 10/10. Sarà già salito qualcuno? Si riuscirà a scalare? Servirà il trapano? Con un nuovo sorriso corriamo verso valle, felicemente consapevoli che domani piove e si riposa!
Più la pioggia continua e più il mio spagnolo migliora visto che siamo obbligati a stare incollati alle panche della capanna comune con un triste fuoco che non genera calore ma solo un gran fumo. “E fu sera e fu mattina” e Gerry non resiste al secondo giorno di inattività. Sveglia alle 7 e lo sento partire mentre mi godo il sacco a pelo. Sì, abbiamo rinunciato a portare 3kg di Parmigiano per il suo parapendio e oggi è il giorno di dargli un senso. Tra un caffè, una sistemata alla dispensa e una “lavatrice” a mano guardo verso il Passo della Bestia ma nel cielo solo condor e nubi poco confortanti. Nessun sogno di Icaro, vedo comparire Gerry sconsolato che mi mostra le foto della candida neve giunta proprio al momento del decollo. Lo consolo con le ultime piadine e un pezzo di formaggio da lui tanto agognato “preso in prestito” dal tavolo comune. Tra una sospensione e una trazione al trave prepariamo lo zaino dove finalmente trova spazio il mitico DeWalt 18 volts! Fatico ad addormentarmi, sarà per le incognite di domani o per il sesto caffè della giornata?

Mentre facciamo colazione due lampade frontali si avvicinano. Sono i ragazzi della tenda a fianco, ma non dovevano partire alle 6.00 per scalare? Ci dicono che stanno aspettando le 8.00 per l’apertura del carretto per oltrepassare il fiume. Li fulminiamo con gli occhi dicendogli di usare l’altro sempre aperto! Partono di corsa strappando una risata. La calma cilena non ha eguali…
Noi invece corriamo come sempre e in due ore siamo già con l’imbrago pieno di ferraglia. Attacco il diedro che dopo una prima parte godibile diventa verticale e privo di fessura, impugno il trapano e via. Ogni volta che foro, ovunque nel mondo, oltre al dolore a braccia e gambe, qualcosa dentro si muove. Un miscuglio di responsabilità, sensazione di toccare la natura, lasciare un segno…

L’acqua gelida mi picchia sulla testa per poi portarsi via terra, muschio, sangue, sudore e polvere di granito. Una doccia paradisiaca. Di nuovo al campeggio, seduto e con in mano una fresca Quilmes finalmente mi rilasso. Sono devastato ed ho aperto meno di tre tiri! Che bello. Mentre riso e patate bollono sul fornello a benza, ormai domato da Gerry, ripercorro con lui la giornata e pianifico già la parte restante. Siamo arrivati alla fine del diedro perfetto e, grazie al mitico piccozzino, lo abbiamo liberato da terra e piante svelando una fessura ottimamente proteggibile. La placca seguente mi ha riportato alla Val di Mello e a quella foto all’ingresso del Bar Monica di Jimeno in apertura con espadrillas e piantaspit a mano, mentre io, viziato dalla modernità, con scarpette performanti e trapano elettrico.
Un crampo al polpaccio destro, causato dai 10 minuti per mettere l’ultimo maledetto fix, mi sveglia in piena notte così da attivare gli ingranaggi nella mia testa: come faremo a passare la placca liscia e l’enorme lama che ci separa dalla prossima fessura?
Pensiero che mi accompagna per i successivi due giorni di pioggia che passiamo tra innumerevoli caffè, bucato, note sullo Squalupo, un po’ di trave e la compagnia di un gruppo di guide dell’Alto Adige davvero simpatici, anche quando non capiamo nulla delle loro battute in dialetto. Così come non capiamo il loro gioco con le carte: ghiande, cuori, foglie e sonagli.
“Bello questo sentiero ma per fortuna è l’ultima risalita alla Paloma!” Risaliamo i tiri aperti fino all’incognita che, dopo notti insonni, nella testa ho già risolto e trasformo in realtà: pendolo, afferro la lama sonante, metto un fix in cima, pendolo ancora e “sosta!” Gerry mi raggiunge veloce e sale il godurioso diedro finale. Una stretta di mano e iniziamo a calarci piccozzino e spazzola alla mano per togliere l’ultimo giardino verticale. Prima di scendere ci voltiamo ed eccolo lì: “El diedro de lo Squalupo”. Niente di eccezionale: una breve via di stampo mellico in una valle sfigata ma, per noi, una piccola grande avventura.

Avventura che ci gustiamo con linguine con uova e fagioli mentre ragioniamo sugli ultimi giorni di sole rimasti e la scelta ricade sulla via “Perdidos en el mundo”. Passiamo due splendide giornate su questa via aperta da Simone Pedeferri e compagni nel 2013: sole, roccia top, bivacco a metà eccezionale, cima spaziale e rientro filato liscio. Cosa volere di più? Il giorno seguente di pioggia! Almeno siamo obbligati a riposare, sparare cavolate con gli altoatesini e, fatto non secondario, impegnarci a dar fondo la dispensa. Il nostro essere ingegneri è appagato dall’ultima colazione che vede finire il pane, il burro d’arachidi e il tanto amato ed odiato porridge. Qualche stretta di mano e un selfie con Lionel più tardi e stiamo dando le spalle a questo anfiteatro di granito che ormai sentiamo come “casa”.


Puerto Varas è un brulicare di macchine e turisti che si godono il lago e i mercatini. È sempre strano tornare alla “civiltà” ma non disdegnamo il comfort di una doccia calda e di un giorno intero di relax. Tempo di pensare al prima e al dopo. Tempo di riflettere sull’essenziale per sentirsi in pace: natura, amici, un piatto semplice, una tenda e la passione per la montagna. Forse anche per questo la valle è dichiarata “Santuario Naturale di Cochamò”.

Taxi, aeroporto, scali, il pessimo Merlot in aereo, nostalgia e i prossimi mille impegni si mischiano in me come in un frullatore.
Un’avventura che abbiamo gustato in ogni momento. Giornate di vita vera dal sapore che resterà per sempre. Avventura che ci ha saziato, stimolato, insegnato, fatto soffrire e gioire. Chiusa l’ultima pagina dello “Squalupo” non vedo l’ora di iniziare a scrivere un altro diario…