La foto che vedete è stata scattata agli inizi degli anni ’90, penso. E quella che vedete qui sotto, pure. Avevo incontrato la speleologia, e per qualche anno andavo in Sardegna dalle 2 alle 4 volte all’anno. La prima volta che ci sono entrato è stato col leggendario Gianni Pinna, uno che mi mise in mano il discensore a otto, si calò in un buco, e mi disse scendi. Pare che il suo stile fosse, perfino nell’ambiente speleologico, un pò criticato dagli ortodossi, e in effetti non ho la più pallida idea di come arrivai sano e salvo dieci metri sotto. La sua filosofia, lo scoprii il secondo giorno dopo che mi lasciò in Su Bentu proseguendo da solo e facendosi raggiungere dopo mezz’ora, era che se uno si lamentava o si trovava fuori posto, era meglio che smettesse subito. Forse come impostazione di un corso è un pò azzardata, però diciamo che impari in fretta…dopo qualche mese entrammo in Su Palu in più di una decina, avevo portato degli amici di Cinisello che pensavano che al massimo una grotta fosse quella di Castellana, e io e il buon Gianni li portammo fuori dopo 18 ore piuttosto epiche ( in pratica sfiorammo la tragedia, ma l’ho capito dopo. Un paio proprio non riuscivano più a camminare dalla stanchezza, e li trascinavamo a braccia…). Beh, comunque mi disse che avevo gran resistenza e che ero portato a starmene fuori. Credo che star fuori, in fondo, sia la corretta traduzione di outdoor. Di Gianni, prima di passare ai miei inizi di arrampicatore, voglio ricordare come esplorava in grotta: martello in una mano, creava appiglio, e saliva. Si alzava di 20 metri, così, e vi dico che non è una palla. Praticamente si creava la via di salita, e se il buco in alto non proseguiva, scendeva e via da un’altra parte. Ovviamente spesso da solo, o comunque non assicurato. Mica poteva mettere protezioni metnre con una mano si teneva e con l’altra creava appigli. Lui faceva il VII, in arrampicata, ma lo faceva proprio in qualunque modo, se capite cosa voglio dire
Poi ci fu, contemporaneamente, la fase canyons, con frequenti puntate in Provenza e tragicomiche discese, non esenti da qualche rischio visto che anche lì, corsi di base zero. Però diciamo che imparai ad uscire da situazioni scabrose…i primi timidissimi movimenti su roccia credo siano del 1994, ed erano proprio timidi.
Poi, più o meno nel 1996, decisi che era il momento di fare grandi cose fuori da Lecco e dintorni. Avevo ormai un’esperienza di almeno dieci vie, a partire da Solitudine sulla Rocca di Baiedo, con una memorabile variante a nut aperta verso la fine perchè la placca di passaggio mi respingeva, e una lotta titanica sul tiro iniziale, straordinariamente al di sopra delle mie possibilità. Tuttavia in speleologia avevo imparato a ravanare in situazioni tragicomiche, per cui ne usciii vittorioso. La futura moglie era perplessa, ma seguiva. Per farla breve su un numero della rivista del Cai avevo selezionato uno scoglio di circa 80 metri nell’entroterra ligure come primo target extra lombardo, per una via di 80 metri che partiva con un IV seguito da un 6a a spit e chiodi.
Avvincente.
Era Novembre, e partii da Sesto San Giovanni a mezzogiorno. Dovevo passare da Lodi a prendere Tatiana, e poi fare rotta verso la Liguria. Per i non attenti, ripeto che era Novembre e sono partito dall’hinterland milanese a mezzogiorno. Parcheggiamo alle 15, si passava da un rifugio, e inosmma siamo all’attacco verso le 16, o poco prima. Non ricordo il nome del luogo, ma uno scoglio di 80 metri con una via di 3 tiri a qualcuno potrebbe risultare noto. Mi divoro il primo tiro di IV con grande maestria, e attacco il 6a. Numero e lettera di fascino vagamente leggendario, a scuola 6 significava suffcienza ma in montagna, lo sapevo, apriva le porte ad un mondo popolato di eroi e valchirie ( scoprirò più tardi, ben pochi eroi, e valchirie boh). Verso le 18 ero a metà tiro, molti voli su uno spit piccolo, e spossatezza diffusa. Con gentilezza la futura moglie mi avverte che fa freddino e sta venendo buio. Prostrato, decido di rinunciare. Doppia con le mezze arrivando fino a terra, e in pochi minuti, buio totale. Panico. Zero frontale, venti metri a piedi e cominciamo a vedere pochino. Memore della speleologia, sono cosciente che il buio non lo supero neppure se ti chiami Goldrake.( per i giovani, Goldrake is the best of my heroes). Tempo di fare venti metri, e piomba un’oscurità che manco nei Guerrieri della notte ( per i più giovani, film cult del mio periodo liceale). Una ventina di inciampi dopo, utilizzo la treaballante leadership per imporre un bivacco, che la mattina dopo si rivelerà essere stato realizzato nel greto di un corrente.
Non sono più tornato a rifare quella via, ma sulla strada del ritorno mi dissi di avere un futuro luminoso, me l’ero cavata e avevo portato in salvo pure la futura moglie. Goldrake e i guerrieri sarebbero stati orgogliosi di me. Mi aspettava il confronto con la mitica val di mello., con placche e fessure pure piemontesi, e poi con il calcare sardo, di cui leggevo e vedevo mirabilie. In ufficio sin dal 1994 avevo attaccato il poster di una via sarda, Mediterraneo, mentre nel nuovo ufficio (lavoravo in Philips) c’era quello di un posto definito da due alpinisti il posto più bello del mondo, perchè aveva la verticalità delle dolomiti e la roccia del verdon. La prima foto, mi dissi, mi pare obiettivo raggiungibile, la seconda lasciamela lì che comunque l’ufficio, senza, faceva indubbiamente ancora più schifo