Pensavo sarebbe stata l’ultima puntata. Invece no, è la penultima. Capirete il perchè alla fine, non potevo concluderla così O forse sì, ma non me la sono sentita.
Perchè la scalata non mi ha cambiato il modo di vestirmi o di parlare o di pettinarmi o di salire su un palco o ascoltare la musica…no, mi ha cambiato la vita. E non voglio fare come certi guru falsissimi dentro e fuori, che fanno filosofia spicciola e sociologia accellerata, creandosi intorno un manipolo più o meno numeroso di ammiratori ed adoratori. Niente “luce negli occhi” figure retoriche e abbondantemente condite da una densa salsa di parole dolci e ‘cariche di significato’ ( cit. Angela Ferrari, grande!). No, per me la scalata è stata come il Kiwi per il mondo. Dal giorno in cui l’abbiamo visto ed era veramente tutto tranne che un frutto e pensavamo, cacchio ci fa questo sasso peloso fra la frutta, niente è stato più come prima.
Giusto poche settimane fa si scendeva con saccone assolutamente normale dopo una giornata (lunga) in parete e per tre giorni ho avuto gambe e non solo completamente inservibili. E mi pareva inverosimile che non molto tempo fa avessi fatto anche due giorni consecutivi di apertura, e una volta, a seguire, persino un terzo a ripetere una via.
Ma è andando a ricordare i miei inizi per questo post che ho capito perchè! Proprio in questi minuti.
Lavoravo in Philips, a Monza, dove c’era una palestra con macchine fitness etc etc. E io arrivavo alle 8.00 e invece di andare subito in ufficio facevo un’ora di resistenza su macchine varie, corsa compresa ( non mi piace correre, mi accontentavo del livello ottimo del test di Cooper, 3000m in 12′, a volte mettevo la pedana un po’ in salita. Chi corre serio ride, lo so ) . Poi dalle 12.30 alle 13,30 filavo al Nei, pannello e pan-gullich. E quando tornavo a casa un’oretta di trave e poi pannello la sera, quando il Gipeto e gli altri arrivavano, fino a mezzanotte. Anche 3 sere la settimana, questa cosa, e tutto il resto ogni giorno. E da Aprile volavo in falesia, dove cercavo di arrivare a 8 tiri prima del tramonto (successo solo una volta, se considerate che Pedeferri ne fa più di 15 al Remenno dalle 17 in poi, dall’8a in su…). Udite udite, facevo anche stretching, con risultati patetici al cospetto di moglie e molti attuali compagni di scalata, ma che volete pretendere da uno che nei primi 25 anni della sua vita aveva tirato saltuariamente calci al pallone, fatto dieci anni di ping pong agonistico fino ad una modesta C1, e poi passati e non di poco i 30 si mette in testa di far vie dure e pure?
E poi c’erano le trasferte in Turchia, anche tre al mese. E allora via di palestre di alberghi e sospensioni agli stipiti, con una volta che ne tiro giù completamente uno al Radisson Hotel e la segretaria che mi fa, ma perchè non vuoi più andare al Radisson, sono stato male per il cibo, le dico. E la palestra di arrampicata di Eindhoven, e molte camere di albergo con ancora, penso, due segni circolari ad una certa altezza dei lati di una porta, la mia sbarra, ovvio. La Polonia, Kwidzyn, dove l’albergo era deserto puro e la tromba delle scale una buona scala Bachar ( però, divago perchè merita, c’era anche, e vi giuro che si chiamava così sulla mitica pasta e fagioli con le cozze, che mai e poi mai spergiurerei, tal Joanna Topolowska, che io solo la Jacqueline della nazionale di pallavolo brasilana ho mai visto così superpower, solo che la Topolowska la si vedeva in carne ed ossa, ufficio acquisti Philips Kwidzyn, andavamo nell’ufficio anche solo a buttare la carta, fine divagazione), e Dreux, in Francia, dove il terrazzo del primo piano era ottimo per le sospensioni alla morte e caduta semi-vietata. Facevo anche cento trasferte all’anno, e bisognava ingegnarsi. Ma conti alla mano, le mie 30 ore di allenamento alla settimana, tutto compreso, le tiravo sempre fuori. Mi proposero soldi, tanti, per trasferirmi in Olanda, dove ero già ero stato 10 mesi nel 1996, ma non ci pensai un secondo, e dove avrei scalato?
Insomma, la base c’era, la voglia un casino, mancava la tecnica. Si cercava di migliorarla scalando fuori, ovvio. E d’Estate le vie, mi mettevo il minimo di 30 all’anno. Poi la mia teoria del partire in falesia a vista con meno rinvii di quelli necessari, fino a due su Cuore Alpino alle Torrette e sui tiri della Corna Rossa, che ammetto fosse superdiscutibile ma che, siccome mi è andata bene, alla fine è stato pure utile. Beh, una volta al terzo piano delle torrette su un 7a+ ho dovuto fare una serie di negative che vi dico che anche Megos avrebbe detto, hey man how strong you are, lì invece il socio disse, iu ies iu ar veri stupid, ma comunque.
E prima di proseguire vedete la foto di Tatiana incinta sotto una cascata di ghiaccio, so che fummo molto stolti, e il gruppo Barbetta sotto l’Aguglia, e in 4 sopra l’Aguglia, Aprile 2001, io e Gian salimmo Itu Damagoni, rispetto a due anni prima, sulla normale, fui decisamente più all’altezza.
Poi nel ponte del primo Novembre 2001 eravamo a Cala Gonone, tutto il gruppo, e il Barbetta mi chiama al telefono verso sera e mi dice, Gian è morto. Siamo corsi all’Oddeu, e Gianluca era precipitato, e il giorno dopo andai a cercare il casco, e sono cose che ti scrivono dentro, tutta la vita, anche quando le cancelli le scritte rimangono.
Mi hanno sempre incensato, sullo scrivere, ma qualunque riga tentassi di scrivere su quel giorno non potrebbe mai minimamente sfiorare quello che sottintende questo ricordo del Barbetta. C’è tutto, in questo ricordo: anche cos’eravamo, cos’era Gianluca, cos’ero io. Quindi questa puntata non è l’ultima, non si conclude divertendovi, e non la concludo io.
Fra tutti i tipi di scalata che un climber può provare, quella che dà più soddisfazione è sicuramente l’arrampicata infra-settimanale. Scalare in un giorno feriale è sempre qualcosa di speciale. Ci si sente dei privilegiati che si permettono il lusso di fare qualcosa di inutile mentre tutto il mondo corre e lavora per alimentare il sistema. E’ un po’ come scendere dalla giostra mentre quella continua a girare intorno, clandestini legalizzati con un alibi verticale.
Oggi è martedì, io e il Gipeto andiamo a scalare al “Solarium”. Il “Solarium” è un posto un po’ particolare: non particolarmente bello ma molto caldo. Uno di quei posti che ti danno l’illusione di essere sempre in estate anche quando il calendario ti dice che è Mentre sono in macchina passo davanti alle falesie storiche: Civate, Galbiate, etc. In questi posti ognuno di noi ha lasciato un pezzo della sua vita verticale. Guardando queste rocce non posso non pensare a noi: Andrea, Alessandro, Matteo, Paolino, Fabio, Juan e tutti gli altri. Tutti cresciuti, ognuno assorbito dalle proprie vite, carriere e famiglie. Eppure tutti ostinatamente alla ricerca di un luogo, forse interiore, uguale al “Solarium”: fatto di un’estate infinita con un sole senza confini, sotto al quale poter mettere ad asciugare le nostre difficoltà, i nostri problemi e le preoccupazioni quotidiane, per trasformarle in gioco, spensieratezza, amicizia! Durante i nostri allenamenti, i bivacchi in Briancon, o parlando dei nostri progetti verticali, sullo sfondo c’è sempre stato un posto così. Un luogo che sicuramente ha sempre sognato il Gian.
Già, il Gian…L’abbiamo lasciato undici anni fa alle prese con una corda doppia molto particolare, di quelle che ti regalano l’infinito senza chiedere il permesso. Chissà se lui il suo “Solarium” l’ha trovato?! Sarà stato capace di trovarlo nella sua nuova dimensione di cielo e leggerezza? Forse un giorno lo scopriremo. Non oggi, perché oggi si va a scalare!
Arrivo al parcheggio dove il Gipeto mi sta aspettando. Sale in macchina e via. Il viaggio è breve e ha il sapore di focaccia mangiata sui sedili e Coca Cola fresca. E’ stata dura ma anche oggi ce l’abbiamo fatta a rimanere bambini.