Voglio iniziare questa terza puntata con una delucidazione: se qualcuno, sapendo poi cosa ho combinato in parete, avesse dei dubbi sulla bontà della scelta scalata, leggete questo, e vi dico subito che è tutto vero.
Inquadramento stagionale: 19 gennaio; da qualche settimana ho letto l’Alp dedicato sul torrentismo, passione per la quale avevo consumato montagne di benzina destinazione Provenza, e avevo preso una di quelle decisioni che possono cambiare la vita. C’era un torrente a Bobbio, provincia di Pc, con salti piccoli, massimo 15 metri mi pare, e mi misi in testa di…risalirlo!
In Inverno, da solo. Tanto, il salire in autosicura mi era noto, lo facevo al ponte di Peregallo…che vuoi che sia, mi dissi, risalire un canyon in inverno, con muta da 3mm…
Nota bene: io allora ero un perfetto sconosciuto, quindi era VERAMENTE una cosa che volevo fare per me stesso, non una di quelle solitarie fatte per se stessi che il giorno dopo sono a piena pagina.
Quel 19 gennaio era nuvolo e freddissimo, andai a tal torrente, mi misi la muta, e iniziai. Dimenticavo, avevo telefonato ad un torrentista che aveva presentato la scheda su Alp, il quale al telefono mi aveva esplicitato, ma sei sicuro di quello che stai facendo?.
Certo, gli avevo risposto. Beh, mi telefoni per favore la sera?
Non gli telefonai, che c’era da raccontare? Avrà scandagliato i giornali in cerca di corpi da recuperare…io invece ero armato di una serie di Friends Ande, e di qualche nut. Iniziai a scalare sotto la cascata, larga circa un metro, spaccando a destra e sinistra. Dovevo, arrivato su, recuperare anche il bidone con cambi e cibo, e poi naturalmente recuperare la corda.
Beh, precipitai sul primo friend tre volte, finendo quasi a testa giù nella pozza freddisima. A un certo punto cominciai a tremare così forte che pensai che forse, forse mi dissi, era un po’ azzardato quello che stavo facendo…alle 13 ero a Lodi, dalla perplessa fidanzata, e dai perplessissimi genitori, che mi misero in una vasca bollente e poi confabularono, presumo, alle mie spalle. C’è da dire che poco dopo era il mio compleanno, 27 Gennaio, e il futuro suocero mi regalò The Big Issue, videocassetta di John Dunne ( chissà dove diavolo l’aveva trovata). La quale si apriva con un volo eterno…che comunque, riflettei, sembrava più sicuro di una risalita su torrente, la quale indubbiamente, a mente gelata, avevo dovuto convenire essere disciplina un tantino azzardata. Col tempo avrei saputo che l’unico che di fatto la praticò era Dan Osman, con le picche per giunta.
Insomma, era meglio darsi alla scalata.
Ma c’era il problema dei polpacci. Che coraggiosamente rivelo con questa agghiacciante foto scattata sul Medale nel 1991, quando l’arrampicata manco sapevo cosa fosse e un compagno di Ingegneria, dottorando, mi aveva trascinato a fare ( da qui la passione per le ferrate, durata un anno).
‘Sta storia dei polpacci era iniziata a 22 anni, quando a seguito di lussazione alla spalla avevo fatto l’ingresso in una palestra di pesistica.
Ehi tu, mi disse dopo pochi minuti un energumeno.
Sì? Era il doppio di me, molto gonfio…
Ma che esercizi fai ai polpacci?
Ai che?
Ai polpacci, E anche alle cosce. Hai dei polpacci da gara.
Mah, risposi, gioco un po’ a calcio e in serie C a ping pong. Poi una decina di sentieri all’anno…
Quello mi guardò schifato e mi propose sei mesi di allenamento quotidiano per definire il busto, e pensare alle gare.
Gare??
Di culturusmo, disse quello.
Scaduto il mese di bbonamento, ovviamente continuai con i pesi a casa, dimenticando il discorso polpacci.
Che, tornato ai giorni post-torrente, annate 96-97, il gipeto, al decimo volo su tal Rambo, 6a, di Civate, rispolverò. Hai le gambe pesantissime, per forza, con quei polpacci…
E la settimana dopo, a Finale, sceso dopo una lotta impari su un 6a+, un tizio simpaticissimo si avvicinò a me e a Tatiana e dpo qualche convenevolo disse papale papale che “tu devi darti agli 8000, con quelle gambe lì. Guarda che polpacci, che hai”.
Ma io non volevo camminare, volevo scalare!! Che fare, di ‘stoi stramaledetti polpacci? Ricordo che me li misurai poi, scoprendo che uno dei miei idoli di boxe, Braxton, aveva la stessa circonferenza. Sì, ma era un mediomassimo!!
Ero costernato, mica me li potevo tagliare. Però…però…non sempre il destino ti si rivolta contro, però, e la sorte risolse alla base il problema poco tempo dopo, sulla via dei camini agli scudi di Val Grande. Stavo recuperando Tatiana alla prima sosta quando persi l’equlibrio e diedi un colpetto con la punta del piede sinsitro alla roccia.
Il secondo dopo vidi il piede dondolare, e senza mai aver saputo esattamente cosa fosse, stranamente realizzai immediatamente che avevo rotto il tendine d’achille.
Toc.
Tatiana riuscì a calarmi, e mi disse, stai tranquillo, so come trasportare carichi e persone.
Lei era cintura nera di arti marziali, e sebbene questo all’apparenza c’entrasse poco, mi caricò sulle spalle in un amen, con tanto di zaino sulla schiena. Non vi dico le vertigini a scendere il sentiero…arrivato al sentiero piano, dopo qualche minuto arrivammo, a poche centinaia di metri dalla macchina, presso un sasso ricoperto da arrampicatori. Quando ci videro arrivare, lo scalatore più grosso di tutti arrivò in fretta e furia e chiese, gentilissimo ( meno male, con quei muscoli…), che è successo?
Senza neppure il fiatone, Tatiana disse che avevo rotto il tendine d’achille.
Lascia lascia, lo portiamo noi, disse il volto gentile. E si avvicinò anche un altro, uno molto magro ma muscoloso definitissimo, che disse, lo zaino lo prendo io.
Il muscoloso grosso fece circa venti metri, barcollò, mi gettò nel panico presupponendo la rovinosa caduta, infine si accasciò nel momento stesso in cui Tatiana disse, lascia, lo riprendo io.
Imbarazzatissimo, il muscoloso lasciò fare, e ci accompagnarono alla macchina. Qualche anno dopo seppi che quella sera, al Bar Monica di San Martino, il muscoloso grosso, tal Marco Vago, e il muscoloso magro, tal Simone Pedeferri, raccontarono all’intera San Martino di una ragazza minuta che riusciva a trasportare senza fatica un tizio con l’Achille rotto.
E insomma i mesi successivi trazionai come un folle, lasciando che le gambe si riduccessero a meno della metà, mentre le bracce si facevano un po’ grosse. Le gambe non tornarono più come prima, almeno il 30% meno grosse. Ora si trattava di scalare, certo, ma nessuno avrebbe più detto dei polpacci.
Però proprio non sappiano usare i piedi, disse il Gipeto, all’ennesimo resting su placca, un paio di mesi dopo la ripresa.
Studiando attentamente guide e suggerimenti, decidemmo di spendere qualche giornata all’Angelone. Dove mi specializzaio in run-out di aderenza saltando gli spit, giochetto che terrorizzava il gipeto e che mi pareva allenante per una specializzazione futura.
E insomma un anno dopo la rottura del tendine d’achille riuscivo finalmente sul 6a di placca e pure di muro a prese, sempre troppo piccole però. Era arrivato il momento di provare il 6b da primo, e di lanciarmi sul sogno sensuale per eccellenza. Il primo obiettivo, il 6b, si trovava a Galbiate. Il secondo, la cosa sensuale, era un obelsico con la normale più dura d’Italia. L’aguglia di Goloritzè.
Dio mi è testimone, furono due momenti che stupirono folle, per come si realizzarono. Cose indimenticabili.
Alla prossima puntata