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“Sogna ragazzo sogna…”

di Dimitri Anghileri

Sono sull’aereo che mi porta per la seconda volta in Patagonia, agitato come sempre per le lunghe ore di volo. Seduti vicino a me ci sono, Giulia, gli amici Piccardi, Motta, Zanchetta e Chiara. Sono molto contento di tornare su quelle montagne bellissime; abbiamo appena consumato un buon aperitivo prima di imbarcarci sul volo, i pensieri corrono facilmente lungo le pareti nella mia mente. Gli ingredienti per far sì che questo viaggio rimanga uno di quelli da ricordare, ci sono tutti: parecchi giorni a disposizione, un bel team, tanta bella gente in giro per il paese e poi loro le protagoniste, quelle per cui in tanti sono lì, quelle guglie eleganti di granito ripido, sferzate costantemente dal vento .

Passano circa dieci giorni dal nostro arrivo, prima di vedere nelle previsioni meteo uno spiraglio di speranza per riuscire ad andare in montagna. Fino a quel momento ci siamo dedicati a qualche passeggiata e qualche uscita in falesia, nulla di più. La voglia di fare è alta. Quando vedi che sta per arrivare il bel tempo è un momento importante nella comunità degli scalatori in paese, tutti ne parlano, tutti lo sanno, tutti valutano che fare. Che fare… è il punto cruciale, prendere la decisione giusta per non toppare l’occasione, cercare di immaginare che condizioni potrebbero esserci in montagna, dopo il maltempo dei giorni precedenti, chiedere ai più esperti del posto cosa ne pensano, valutare tutto il ventaglio di opzioni a disposizione, decidere, cambiare idea, confrontarsi di nuovo, riguardare per la centesima volta le previsioni del tempo. Danno due giorni di bel tempo, prima ha fatto parecchio brutto, ci immaginiamo le fessure delle pareti belle intasate di ghiaccio, ma alla fine le decisioni in merito a dove andare vengono prese, è la prima uscita di stagione, scalpitiamo per andare in montagna. Il team Motta/Zanchetta si dirige verso il Traverso Motocroos, che consiste nel concatenare la cima dell Aguja Guillaumet fino alla cima della Mermoz, riescono quasi a realizzarlo, mancando però la cima della Mermoz per carenza di tempo. Io e Giulia, insieme a Piccardi e all’appena atterrato in terra argentina Mirko Masé, ci dirigiamo verso il nostro progetto in Patagonia, la via Casarotto sul Pilastro Goretta – Fitz Roy -. Rientrato da quella uscita scrissi due righe di come andò, rileggendole a mesi di distanza mi ci ritrovo perfettamente, eccole:
“Una delle pareti che più mi attrae qui in Patagonia è quel pilastro che dal paese sembra appoggiato al Cerro Chalten, meglio conosciuto come Fitz Roy. Questo fu superato per la prima volta, in solitaria, dal fuoriclasse Renato Casarotto, che dopo averlo salito, ha dato al pilastro il nome di sua moglie Goretta, la quale, durante i suoi tentativi di salita lo aspettava al campo base. Un’impresa monumentale. Siamo partiti dall’Italia con l’obiettivo di provare a salire questa via mitica. Una piccola finestra di bel tempo, di due giorni, anticipata da una bella tempesta patagonica, ci fa preparare lo zaino e partire. I Dubbi sono moltissimi sulle condizioni della parete, che si mostra in tutta la sua enorme mole e verticalità solo quando siamo all’attacco del canale ovest di accesso. È bellissima e smaltata di bianco. Siamo sotto al nostro sogno, avremmo anche altre possibilità per salire questa montagna, ma noi, un po’ ostinati, siamo lì per il Goretta. Ci guardiamo, discutiamo e alla fine partiamo. Il canale che dovrebbe essere l’avvicinamento alla via vera e propria si rivela già una via di per sé. Arriviamo al bloc empotrado a sera. Mangiamo e ci mettiamo nei nostri sacchi pelo. Da sdraiati l’immenso pilastro sopra di noi sembra osservarci. Siamo in un posto magico. All’alba partiamo sulla sulla via, le condizioni della parete non sono il massimo per via del classico ghiaccio nelle fessure, ma il vero problema sono i nostri zaini troppo pesanti che rendono l’arrampicata fisica ancora più faticosa. Siamo lenti e stiamo bruciando rapidamente le energie, dopo una manciata di lunghezze, le chance di uscire in giornata dal pilastro rapidamente svaniscono. Posti da bivacco, se non appesi alle corde non ce ne sono. Sono stanco, i pensieri si aggrovigliano, il conto alla rovescia verso la fine del bel tempo gira veloce. Discutiamo, impreco, ma mi arrendo all’evidenza dei fatti, con questo assetto la nostra salita non ha possibilità di successo. La decisione è presa, si scende. Lunga e laboriosa discesa dal pilastro e poi dal canale est. A sera tutti bagnati per la grande quantità di neve siamo sul ghiacciaio. Il pilastro rimane il mio sogno, attendo che il bel tempo mi sorrida ancora in questa terra magica e severa, prima che i nostri giorni di permanenza qui finiscano.”
 
Il maltempo patagonico, per me ha anche degli aspetti positivi, ti permette o ti costringe, a seconda dei punti di vista, a prendere quel tempo che spesso, nella vita quotidiana facciamo fatica a trovare; hai modo di pensare, ed io nei giorni successivi ho pensato molto alla nostra prima uscita sul pilastro Goretta, ho avuto per parecchio tempo l’amaro in bocca, anche se sono convinto che la nostra scelta di scendere sia stata quella giusta. Insieme ai miei compagni abbiamo analizzato tutti gli errori fatti: strategia, preparazione personale e quant’altro, abbiamo cercato di dare risposta a tutto, la montagna è anche questo, ognuno di noi la vive e la vede a modo proprio. La differenza tra successo e sconfitta è definita da molti fattori, dal margine personale, dalle condizioni della parete, dalle scelte strategiche, come già detto, ma anche da dove vogliamo porre la nostra soglia del rischio, quanto vogliamo osare. Su queste montagne, se non apri un po’ il gas non vai da nessuna parte, ne sono convinto, ma i rischi aumentano smisuratamente se prendiamo decisioni sbagliate dettate dal concitamento di certi momenti. Sta a noi decidere e non è sempre facile. La prima volta che venni qui, salimmo la Whillans-Cochrane alla Aguja Poincenot, nella discesa in corda doppia rimanemmo con solo 15mt di corda a causa del vento spaventoso che c’era, scendemmo solo grazie all’aiuto di un’altra cordata. Diciamo che quel mio battesimo di qualche anno fa è ancora vivo in me e sicuramente mi ha insegnato cosa vuol dire avvicinarsi allo scadere del tempo. Per scadere del tempo intendo quel momento in cui il bel tempo finisce e il brutto, che a volte può essere terrificante ,si avvicina velocemente.
I Giorni di brutto continuano, la compagnia si allarga, anche Luca Tenni e Federico Martinelli sono arrivati a Elchalten da qualche settimana.. C’è una mezza giornata di sole, con forte vento da ovest, proviamo in varie cordate ad andare alla Aguja del S, piccola cima posta ad una estremità della catena del Fitz.
Scaliamo la via Austriaca, scherzando tra noi facciamo un parallelo con le nostre piccole pareti di casa, è un po’; come se fossimo venuti a scalare ai magnaghi della patagonia, se ti guardi intorno e paragoni le moli delle altre pareti a fianco. Ma va bene tutto, siamo qui per divertirci e questa via ci solleva un po’; il morale, in questo gennaio poco clemente dal punto di vista meteorologico. Una “vietta” di 350m che comunque prevede circa 32km di cammino tra andata e ritorno. Dopo parecchi giorni altra piccola occasione per scalare, solito forte vento da ovest, quindi con Giulia e Motta ci dirigiamo, verso la Via Italiana alla Aguja St. Exupery esposta ad est, una via di circa 700m con una prima parte di misto m4/m5 e una bella serie di fessure nella parte superiore fino al 7a. Le fessure e diedri sono completamente intasati di neve, su alcuni tiri ci bagnamo completamente, ma la giornata è bella e la motivazione alta, così raggiungiamo la cima verso le 18:00.
Via Italiana St Exupery
Il tempo a nostra disposizione sta per finire, gli amici Motta e Zanchetta sono già rientrati in Italia, ma ad essere onesti non ci sentiamo pienamente soddisfatti di questo viaggio a livello arrampicatorio. Stiamo quasi per preparare i bagagli quando le previsioni annunciano uno spiraglio di speranza, però, dopo la data del nostro rientro. Siamo molto combattuti, ma sembra che qualcosa ci dica di rimandare la partenza. Ne parliamo e decidiamo, si rimane ancora qualche settimana in questa terra magica. Da quel momento in poi ognuno cerca di svincolarsi dagli impegni presi a casa e compra un nuovo biglietto aereo. Siamo due cordate ma un unico gruppo: Giulia io e Piccardi, Martinelli, Tenni e Masé, il nostro obiettivo è la Via dei Ragni alla ovest del Cerro Torre, che già a pronunciarlo mi vengono i brividi. Prepariamo gli zaini con molta meticolosità come ci insegna il buon Martinelli, fanatico dei pesi, altro punto chiave che serve per muoversi veloci su queste montagne, essere leggeri. Siamo pronti a partire, abbiamo ipotizzato una strategia per la salita, il bel tempo che prima sembrava essere di quattro giorni, ora sembra solo uno e mezzo e con un zero termico maledettamente alto per una via di ghiaccio. La mattina della partenza l’amico Giga mi inoltra da casa la traccia musicale del film Cumbre, del regista Mariani, ascoltando la voce di Lucia un brivido mi passa lungo la schiena, lo prendo come un buon segno, andate a cercare quella canzone. Il primo giorno raggiungiamo il bivacco Garcia passando per il passo Marconi, è una struttura che può ospitare una quindicina di persone, posizionata nell’immenso Hielo Continental, in territorio cileno. Per la giornata successiva le previsioni promettono ancora brutto, quindi il nostro piano è di oziare nel bivacco. Da casa tramite il satellitare gli amici ci aggiornano sulle le previsioni meteo, ancora un giorno un po’ così con vento forte, poi un giorno e mezzo di bel tempo ma ventoso. Non siamo convintissimi, guardando fuori dalle finestre del bivacco il tempo pessimo ci mettiamo a fare tutte le ipotesi possibili per la salita.

La mattina quando ci alziamo il vento è molto forte e c’è poca visibilità, con qualche dubbio ma decisi partiamo per la seconda parte dell’avvicinamento che prevede di arrivare nella zona del filo rosso al Circo de los Altares, circa 45km dal paese. Con un buon passo raggiungiamo questo posto incredibile e isolato, da qui la vista sul versante ovest del gruppo del Torre è magnifica, ma le montagne sono avvolte da una fitta nebbia e solo a sprazzi si intravede la torre Egger, il Cerro Torre rimane nascosto.
Piazziamo le tende sotto dei grossi sassi, passiamo la notte scossi da forti raffiche, alle 3 di mattina suona la sveglia, discutiamo tra noi e decidiamo di temporeggiare, soffia veramente tanto. Passa ancora un’ora e decidiamo di partire. In circa due ore siamo all’attacco della via, sta albeggiando e le montagne si fanno vedere vestite di brina con una luce rosa che le fa brillare.

Il vento sembra un po’ calato e le raffiche diminuite, attacchiamo la via. Siamo sulla parete ovest del Cerro Torre, 50 anni dopo la prima salita, sembra assurdo, stiamo salendo a buon ritmo, arriviamo al col della Speranza, è un buon orario. Non parliamo molto fra noi, ognuno fa il suo per essere efficienti e veloci.
 
Con qualche peripezia e grazie alla tenacia di Martinelli arriviamo sotto il fungo sommitale con il buio. Ci prepariamo per bivaccare in cima ad un fungo di neve espostissimo, per via del vento, si rompe una delle due tende nel montarla, Mirko Matteo e Luca bivaccano avvolti nel solo telo della tenda. Dormiamo cinque ore, all’alba una luce magica ci avvolge, l’ombra maestosa della catena del Torre e del Fitz roy di estende sullo Hielo, uno spettacolo unico. Saliamo l’ultima lunghezza abbastanza velocemente, alcune cordate un mese prima di noi avevano ripetuto la via scavando un tunnel nella struttura di ghiaccio sommitale che caratterizza la parte finale della montagna, fortunatamente è ancora formato e ci consente di passare.
La mattina dell’8 Febbraio raggiungiamo la cima del Cerro Torre, mi commuovo un pochino, non mi era mai capitato in montagna. In cima stiamo pochi attimi, il vento è fortissimo. Iniziamo la discesa che fortunatamente scorre via veloce, verso le 18:00 siamo di nuovo sotto il Filo Rosso, le previsioni sono in peggioramento nella giornata successiva, quindi dopo aver mangiato le ultime cose rimaste ci avviamo verso i 18km che ci separano dal bivacco.
Sono molto felice per questa salita, per tanti fattori. Il gruppo è stato eccezionale, con Giulia la mia compagna, la prima donna italiana a ripetere questa via. Con Matteo il mio maestro e amico speciale, Mirko e la sua esperienza su queste montagne, Luca la certezza in ogni situazione, Martinellino e la sua motivazione. Ripetere questa via nel 50 anniversario della prima salita, è stato per me anche una sorta di omaggio verso il Gruppo Ragni. Salire oggi non è di certo da considerarsi un’impresa come lo è stata la realizzazione della prima salita. Oggi disponiamo di mezzi tecnologici che ci danno previsioni meteo, attrezzatura leggera e performante, abbigliamento tecnico, pasti liofilizzati. Nel ‘74 tutto questo non c’era, e andare in quel luogo di persona ti fa capire quello che possono aver vissuto i primi salitori, la battaglia che hanno portato avanti, hanno firmato un capolavoro nella storia dell’alpinismo mondiale, una via di ghiaccio eccezionale, ripida e bellissima. Se noi oggi siamo saliti sulla montagna più bella e anche grazie a loro, alla loro visione e alla loro determinazione.
 
Devo ringraziare tante persone che ci hanno sostenuto o aiutato in qualche modo, il Gruppo Ragni, Matteo della Bordella, Rolando Garibotti, Ale Baù e Claudia, Motta, Marco Zanchetta Giga, Chiara, Claudio le famiglie a casa e tutti quelli con cui abbiamo condiviso una o più birre. Ho tante sensazioni che mi girano nella mente, abbiamo vissuto momenti unici, intrecciato rapporti, un viaggio che ognuno di noi ha sognato a proprio modo e che sicuramente non dimenticheremo.
 
 

Testo di Dimitri Anghileri

Foto di Anghileri, Venturelli, Piccardi, Masè, Martinelli e Tenni

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