La Patagonia e la storia dell’alpinismo sono sempre andate a braccetto, il perché è chiaro nell’esatto momento in cui intravedi le montagne, se hai fortuna puoi persino scorgere in lontananza le sagome minacciose del Fitz Roy e del Cerro Torre dal finestrino dell’aereo.
Ogni anno arrivano sullo schermo del nostro smartphone foto e racconti di salite incredibili, con il cielo azzurro e pareti di granito perfetto! È impossibile non sognare di essere lì! E il sogno si amplifica negli anni leggendo e rileggendo le storie, talvolta assurde, che hanno reso leggendarie queste pareti, libri su libri son stati scritti! E tante menti umane son state rapite per sempre da questi posti.
Per me la Patagonia è sempre stato il playground di quelli veramente bravi, dei migliori! Era chiaro per me che il mondo dell’alpinismo estremo aveva ogni estate australe appuntamento fisso a El chalten, e questa tradizione andava ripetendosi ormai dagli anni 80.
Ci sono posti al mondo che non sono soltanto posti per arrampicare, ma veri e propri hotspot di confronto personale e comunitario volto al miglioramento, alla perfezione, alla ricerca più esasperata della bellezza!
La parete di El Capitan, per esempio, possiede lo stesso potere magnetico e una storia che ha cambiato la storia stessa dell’arrampicata in termini di stile, di approccio e rispetto per la montagna.
Son state le persone, con le loro ambizioni a perfezionare e cambiare le regole del gioco fino a dove siamo arrivati oggi, la cosa più affascinante è che tutto continua ad essere in evoluzione e, talvolta, il regalo più bello che ha lasciato la generazione prima è proprio il dubbio che qualcosa sia ancora possibile o no.
Per questo ed altri motivi ho sempre immaginato le montagne della Patagonia come il posto più vicino al paradiso, ma ancora sulla terra. Per di più sono Ragno di Lecco e non serve raccontare quanto il filo rosso del nostro maglione sia stato intrecciato ad uncinetto con le fessure è il ghiaccio della Patagonia.
Per questo, quando sono arrivato ad El Chalten, ho fatto esattamente come avevo fatto nel esatto momento in cui sono arrivato a Yosemite: sono andato a comprare la guida d arrampicata. Volevo farlo lì! Non volevo comprarla a casa magari ordinandola in internet, volevo proprio entrare in un negozio, comprarla, poi uscire dal negozio e alzare lo sguardo verso il Fitz Roy.
È ingannevole questa sensazione, come sono ingannevoli le foto che ogni anno vediamo sullo schermo del nostro telefono. La sensazione di avere una guida in mano è quella di essere sulle pareti di casa, dove tutto sembra ancora più a portata di mano. Quando ero in Kirghizistan o a all’Isola di Baffin o sotto le pareti del Bhagirathi non avevo questa sensazione, era tutto avvolto dal mistero e la mente organizza i pensieri in maniera diciamo così… più cosciente!
I pericoli sono amplificati, la vita a campo base amplifica la solitudine e di riflesso ti senti isolato con i tuoi compagni in parete, sai perfettamente che, nel bene o nel male, non ci sarà nessuno ad aiutarti, invece a El Chalten non hai la stessa sensazione quando sfogli la guida al bar davanti a una birra fresca. Per fortuna le tante esperienze spedizionistiche mi hanno insegnato ad affrontare le pareti enormi come queste con un mindset diverso rispetto ad una salita in in Val di Mello, specialmente quando hai sentito dire che il Torre è la montagna più pericolosa al mondo, e tu sei lì al bar con una birra in mano, ma stai andando proprio a provare a scalare il Torre di lì a pochi giorni.
Non ero mai stato in Patagonia, ma sapevo che prima o poi sarebbe arrivato il mio turno, aspettavo il momento giusto. Fondamentalmente son state due le ragioni. Per prima cosa avevo un po’ timore di confrontarmi con queste pareti, per la loro difficoltà, storia e soprattutto per le condizioni meteorologiche tante volte inclementi. Ho sentito tante storie, di tanti viaggi che si son risolti in un nulla di fatto perché le condizioni meteo non han nemmeno permesso di avvicinarsi alle pareti, e per me questo era già un rischio troppo alto; posso permettermi nella migliore delle ipotesi una spedizione all’anno e non volevo rimanere bloccato in paese ad aspettare per niente.
In secondo luogo son sempre stato affascinato da viaggi più solitari, dove condividi le emozioni con i tuoi compagni e basta, lontano da ogni comfort che può offrire un paese, lontano da questo maledetto smartphone, ma esasperatamente in sintonia con te stesso. Il campo base mi è mancato questa volta, ma realisticamente, appena abbandonato il paese di El chalten, la mentalità è tornata ad essere quella dell’Himalaya, per esempio. Perché è proprio così! Nonostante la guida e i tanti racconti di successo, le montagne della Patagonia sono ancora tra le più selvagge al mondo. Non lasciatevi incantare!
Il 9 gennaio siamo partiti io ,David Bacci e Matteo Della Bordella dopo aver compilato una pila infinita scartoffie e form legate alla pandemia COVID. Siamo arrivati a El Chalten alla mattina e abbiamo preparato subito gli zaini, per partire il giorno seguente per un carico di materiale fino al campo dei norvegiesi.
La mattina dopo, camminiamo fino alla Laguna Torre, poi scopriamo le condizioni di semiabbandono del sentiero che prosegue verso il ghiacciaio. Complice la stagione alpinistica mancata a causa del lockdown e la solita velocità con la quale le morene cambiano e crollano, ci troviamo a camminare su un ripido pendio dissestato e la melodia cambia immediatamente.
Vediamo il Torre avvicinarsi e gli zaini pesanti sembrano leggeri al pensiero di scalare questa montagna. Le pareti sono già in condizione e tutto sembra funzionare, mi sembra strano! Infatti la notte al Nipo Nino conferma la brutalità dei venti Patagonici: la tenda sopravvive al limite delle sue prestazioni e la mattina dopo la tempesta ci fa scappare a gambe levate!
I giorni successivi son stati spietati per il maltempo e a turno siamo stati male: io, proprio la sera prima della finestra di bel tempo, ho iniziato a non sentirmi bene e i giorni di bel tempo successivi son rimasto a letto, mentre Teo è David finivano di portare il materiale alla base del Torre e si godevano una prima via sul granito paragonico!
Ero furioso con me stesso, eravamo arrivati da una settimana e mi ero perso la prima finestra di 3 giorni. Ma per fortuna le previsioni davano di nuovo bello nella settimana successiva.
È il 23 gennaio e davanti a noi sembrerebbe proprio esserci “la finestra” ma non una finestra, proprio “La Finestra”! Quella della stagione o forse della vita. Sappiamo che un altro team è pronto ad attaccare la parete nord del Torre negli stessi giorni e andiamo da loro per un confronto, per fare gli auguri. Parliamo della nostra salita e loro della loro, Korra Pesce ha una quantità di foto sul suo telefono estremamente dettagliate della parete nord, conosce ogni singola fessura, lama placca passaggio e formazione di ghiaccio, la nostra attenzione si focalizza su un fungo pensile enorme: è spaventoso, sospeso nel vuoto e proprio sopra la via di salita di tutti noi. Mi si è gelato il sangue quando l’ho visto. Sfidava ogni regola della gravità, ma era lì da un bel po’, ed è stato proprio Korra a trovare le parole per allontanare la paura. Aveva una teoria per la quale quel fungo stava sospeso perché avvolgeva una struttura rocciosa strapiombante, non so perché, ma mi ha tranquillizzato. Con David Bacci non avevo mai scalato prima di questo viaggio in Patagonia. Ho un profondo rispetto e ammirazione per quello che è stato il suo percorso alpinistico. Ho invidiato alcune sue ascese come penso lui abbia invidiato alcune mie o forse, più semplicemente, avremmo soltanto voluto condividerle insieme, ma non si era mai presentata l’occasione fino a quella mattina del 24 gennaio durante la quale stavamo camminando verso la montagna delle montagne, fidandoci l’uno dell’altro come avessimo scalato insieme da una vita, senza parlare e in silenzio, ognuno nel rispetto dei pensieri del compagno.
Arriviamo al campo dei norvegiesi e la parete è piena di neve. Mi tornano in mente le parole di Matteo Pasquetto nel video del loro primo tentativo 3 anni prima: “La parete si presenta ricoperta da un candido manto di neve che ne rende di fatto la scalata impossibile”. Anche Teo è un po’ nervoso, perché sperava di trovare la parete in condizioni migliori.
La mattina successiva il piano era di attaccare il prima possibile, ma con queste condizioni sarebbe stato inutile. Andiamo a dormire rimandando tutti i dubbi all’indomani. Ci alziamo con la calma dei boulderisti e facciamo colazione. La parete è al sole e la neve si sta sciogliendo. Partiamo verso la parete senza la certezza che avremmo attaccato ma, una volta alla base, la situazione era ormai accettabile e non avrebbe potuto che migliorare nelle ore successive.
Attacchiamo tardissimo, ma Teo conosce la via e guida la cordata veloce come un fulmine! Teo è al top della forma! Arriviamo al box degli inglesi! Mi sarebbe piaciuto dormire sul tetto come avevano fatto Pasquetto e Teo l’ultima volta, ma in questi anni le condizioni del box sono peggiorate ed è già una fortuna con prendere in testa qualche lamiera spostata dal vento. Quando stai lavorando nel montare la portaledge o nel sciogliere acqua non ti accorgi di dove sei, ma appena ti fermi, ti siedi e vedi l’ombra del Torre risalire la parete del Fitz Roy infuocato dalle ultime luci della sera e ti basta allungare il braccio per toccare il box, capisci che sta succedendo per davvero! Che ormai sei lì! A vivere quel sogno che per più di un anno ti ha accompagnato.
Il giorno dopo è il 26 gennaio! Un giorno di per se speciale per me, festeggio il mio compleanno allacciandomi le scarpette e iniziando la scalata verso il Diedro degli inglesi. Sta succedendo! Poi David prende il comando e inizia a scalare le off width del diedro! Anche lui è al top della forma mi complimento con lui per l’incredibile scalata appena compiuta!
Poi è il turno di Teo. Come se non avesse fatto altro nella vita scala le strapiombanti off width proteggendosi con gli enormi friend del 7 e dell’8, un fardello che ci è costato qualche sacrificio portare fin qua, ma senza del quale non saremmo stati in grado di salire. Arriviamo alla fine del diedro sfiniti. Questa parete non ci ha mai regalato niente: tutte le soste appesi come cinghiali, ogni tiro una lotta, esposti che a confronto un viaggio nell’iperspazio sarebbe niente. Ebbene niente cengia e niente neve da sciogliere. Il mio morale precipita, ma non c è tempo per pensarci: sistemiamo la portaledge mentre David armato di piccozza raggiunge qualche pezzettino di ghiaccio in fondo ad una fessura. Andiamo a dormire assetati e dentro la nostra portaledge i dubbi sono tantissimi per il giorno successivo. Il tiro in artif per uscire sulla nord è un’incognita, un tiro in artif può essere un agonia in termini di tempo e poi dovremmo fare un traverso orizzontale, che è la situazione peggiore quando il secondo è il terzo si muovono con sacconi pesanti. Anche lì non sappiamo quanto tempo potremmo impiegare, ma sappiamo che trovarci sulla nord nelle ore più calde del giorno è una pessima idea…
Prima di “addormentarci” dico soltanto che forse è meglio alzarsi un po’ prima domani. Non spiego il perché ma era chiaro.
Il 27 è di nuovo il mio turno per il tiro in artif. Fila tutto liscio e, abbastanza velocemente, facciamo capolino sulla nord! Anche il traverso non ci da troppi problemi e alla fine della nostra sezione orizzontale troviamo Tomy e Korra. Manco ci fossimo organizzati!
Analizziamo la situazione e la nostra idea di salita lungo la nord ci appare subito… l’idea sbagliata! Non è in condizione, troppo ghiaccio e dove c’è roccia è tutto bagnato. Allora ci uniamo a Korra e Tomy che ci precedono di una lunghezza, sono già passati di lì 3 anni prima e sembra l’unica porzione di parete in condizione.
Inizia a far caldo e inizia cadere ghiaccio. David prosegue prima in scarpette poi in una goulotte. Con i ramponi ai piedi e le picche è felice come un bambino, entusiasta di salire!
Poi Teo segue sui tiri ancora di roccia, fino a dove il granito lascia definitivamente posto al ghiaccio. Siamo tutti e 5 in sosta sotto quel fungo pensile visto sullo schermo del telefono di Korra qualche sera prima. In quel momento non siamo due team diversi, siamo solo 5 persone esposte ad un pericolo enorme!
È questione di tempo è l’acqua che scorre ai suoi bordi lascia intendere che è meglio scappare il prima possibile da lì!
È Korra a guidare il team e il tempo di cambiare le scarpette e mettere gli scarponi sono attimi interminabili per noi la sotto, accettiamo il compromesso di farci fissare la corda per quel tratto lì e risaliamo quei metri di placca appoggiata come dei fulmini, passando proprio sotto questa vela di ghiaccio attaccata alla roccia per uno sputo soltanto in un punto. Tiriamo un sospiro di sollievo! Siamo sfiniti, ma ci colleghiamo all’ultimo tiro della Via dei Ragni. La Via dei Ragni!
Con un orgoglio infinito di far parte del Gruppo Ragni, altri 3 Ragni raggiungono quello stesso punto, aprendo una via nuova, esattamente 48 anni dopo!
David sale il fungo finale dando ancora una volta prova del formidabile alpinista che è! Siamo in cima!
Siamo in cima al Cerro Torre! Proprio in cima!
Questo è il momento in cui il destino, e una serie di piccole decisioni, hanno determinato una scelta che si è rivelata giusta. Korra e Tomy avevano lasciato il loro materiale da bivacco in parete all’altezza del box degli inglesi e avevano sempre scalato di notte tranne quest’ultimo pomeriggio insieme a noi, proprio per abbattere il rischio di crolli di ghiaccio dovuti alle temperature. Avevano già deciso di scendere quella stessa notte lungo la nord, protetti dal freddo e più volte ci hanno chiesto se volessimo scendere insieme. L idea era anche allettante, perché avevano lasciato le soste e sapevano dove andare, ma noi eravamo stanchi, come loro del resto, ma avevamo trascinato fino in cima tutto il materiale da bivacco e portaledge. Eravamo pesantissimi rispetto a loro e, semplicemente, ci saremmo sentiti un peso per loro che sarebbero scesi molto più velocemente rispetto a noi e al nostro fardello di materiale. Noi, di contro, non avremmo potuto insistere perché loro dormissero con noi sulla cima, visto non avevano materiale da bivacco. Poi avevamo portato con noi un piccolo drone e volevamo farlo volare sulla cima, non ci sarebbe stata altra occasione.
Ci salutiamo e vedo Korra col viso pieno di crema e un sorriso infinito fare la prima doppia. Non aveva un discensore, si calava con un eccentrico rosa usato a mo di secchiello. Non avevo mai visto fare una cosa del genere ma ho pensato potesse essere un modo per risparmiare peso, avendo discensore e protezione per la scalata in un colpo solo. Continua a non essermi chiaro ma avevo pensato di chiedergli delucidazioni una volta in paese… Lo saluto ringraziandolo e promettendo di offrire una cena in un qualche ristorante a El Chalten, ma non prima di aver bevuto qualche birra.
Salutiamo lui è Tomy come si salutano gli amici dopo una giornata in falesia. Mi tolgo finalmente l’imbrago: se non fosse che mi serviva per scendere l’avrei buttato giù!
Non c’è un filo di vento facciamo volare il drone! Abbiamo tutto il cibo risparmiato la sera prima e tutto il ghiaccio del fungo da sciogliere per dissetarci!
Una delle cene migliori di sempre, un tramonto memorabile e l’ombra del Torre che ancora una volta risale il Fitz infuocato.
Non vogliamo ancora dirlo che è finita perché la discesa sarebbe stata ancora una bella prova di nervi, ma dentro di noi inizia a farsi largo la soddisfazione.
Il giorno dopo prendiamo a scendere lungo la Via del Compressore. Arriviamo al compressore e anche solo vederlo per me è qualcosa di incredibile: i rivetti di Bridwell e la linea di Lama… Siamo sulla headwall del Torre!
È vero stiamo scendendo ma la potenza della storia dell’alpinismo in quel preciso punto del pianeta è al massimo livello percepibile e che la roccia può raccontare.
30 doppie ci dividono dalla base della parete. Un giorno intero a tirare le corde e sperare che non si incastrino da qualche parte. Ancora una volta, come in un sogno, non abbiamo mai un problema, nonostante tutte le lame che ci sono. Arriviamo alla base e vediamo un team di quattro persone salire velocissimo dal ghiacciaio. Pensiamo che qualcuno sta preparando il materiale per la prossima finestra. Continuiamo a scendere. Più in basso David vede sul nevaio alla base i segni di un evidente valanga. È stato il primo a immaginare la situazione che poi si è fatta chiara quando, alla base, abbiamo incontrato il team accorso in soccorso dopo un SOS fatto con le luci frontali durante la notte.
Il sogno appena concluso da pochi minuti, quando appoggiati i piedi a terra allontani tutte le tensioni e la mente finalmente si rilassa, già pensi di mettere il cervello in stand by e camminare fino al paese, ecco che in quel esatto momento tutto diventa grigio come in un incubo e tutto cambia.
Avevamo poche informazioni, ma sapevamo che Korra e Tomy erano ancora in parete, infortunati perché investiti dalla valanga durante la notte, in due posizioni diverse e non c’era nessun team di soccorso in grado di raggiungerli.
Capisci in quel momento che sei tu il team di soccorso, insieme a quei quattro alpinisti che son saliti di corsa, anche loro stanchi, come noi, della scalata dei giorni precedenti, per provare a fare qualcosa.
Avevamo ancora una batteria carica del drone e siamo riusciti a individuare Tomy all’altezza del nevaio triangolare, Korra era al limite delle possibilità del nostro drone che oltre i 500 metri non va. Non siamo riusciti a vederlo e nemmeno ha mai risposto alle mostra urla. Nel frattempo altri team di alpinisti e soccorritori sono arrivati alla base della parete, esponendosi coscientemente ai rischi di un altra valanga o alle insidie del ghiacciaio. L’energia di tutti noi ci ha ricaricato le batterie in un mix di adrenalina e paura. Eravamo il team con più materiale per la scalata, ovviamente, e tutto è stato utilizzato per la salita e per fissare i tiri fino al nevaio triangolare ma, soprattutto, c’era Teo.
Ho visto in quel momento Teo cambiare in un istante mentalità, mentre ancora si discuteva su cosa fare aveva già iniziato a togliere dall’imbrago il superfluo e attaccarsi il materiale necessario per la scalata. Io penso sapesse che l’unico veramente in grado di salire velocemente i primi tiri era soltanto lui. E di fatto era così. Avendo già scalato pochi giorni prima quella sezione ha sentito il dovere di farlo. Non c è stata da parte sua neanche un secondo di esitazione e, accompagnato da Roger Shaeli, ha guidato la cordata in tempo record fino al nevaio.
Un grande alpinista non è per forza un grande uomo, ma in quel momento ho visto tanti bravi alpinisti diventare grandi uomini e fare il possibile con tutte le loro forze per salvare la vita di un amico.
Thomas Huber è stato il leader di queste operazioni in parete e ha saputo far consapevolezza anche sui rischi che questa decisione comportava. Abbiamo tutti fatto il massimo per aiutare in questa terribile avventura.
David ha portato le corde da fissare fino al punto più alto e una squadra di 30 persone ha trasportato Tomy in barella sul ghiacciaio e poi sulla morena. Aveva un polmone bucato, spalla e costole rotte. Il mondo degli alpinisti in quel momento a El Chalten era tutto lì, alla base della montagna che ho sentito dire essere la più pericolosa del mondo, e questo abbraccio di energia è di per sé l’aspetto più umano e migliore che il mondo degli alpinisti può offrire.
Questo episodio ha cambiato per tutti la spedizione e forse anche l’amore per le montagne patagoniche. Ho solo pensato a quando sentì dire “È morto facendo quello che gli piace” ed è soltanto una magra, anzi magrissima consolazione. Magari per i parenti. Ma se dovessi trovarmi io su una cengia a metà del Cerro Torre con la colonna vertebrale o il bacino rotto e incapace di muovermi di un millimetro non sarei nelle condizioni di convincere me stesso che son morto facendo quello che amo fare. Perché se sei in quelle condizioni è chiaro che sei morto, anche se sei ancora cosciente, chiederei al mio compagno di andarsene e di salvarsi la vita, ma, una volta lì da solo, col pensiero dei miei cari a casa ad aspettarmi sarei consumato nel profondo dai più terribili sensi di colpa ed è chiaro che non ne è valsa la pena.
Questo è solo quello che ho pensato e pensare che sia successo veramente e che sia stata la decisione di far volare un drone a fare da bilancia nel nostro destino è qualcosa che va oltre una nuova via al Cerro Torre.
Il giorno dopo ogni speranza si è perduta con il vento e le raffiche di neve che ci investivano al campo dei norvegiesi.
Il Torre era tornato nella sua nuvola nera e tempestosa e, con il peso di questa avventura, siamo tornati silenziosamente a El Chalten. In silenzio, esattamente come quattro giorni prima siamo andati verso il Torre.
Il nome della via è una dedica a tutti i compagni che abbiamo perso in montagna, tentando di raggiungere la propria felicità! Tante guerre son state inutili e tanta gente è morta sul campo di battaglia e forse anche salire una montagna non è la cosa più utile che una persona possa pensare di fare nella propria vita, ma viviamo di emozioni e per un alpinista arrivare in cima può essere l unica cosa che può dare senso ad una vita altrimenti inutile. E allora lo fai!
Brothers in arms