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Odissea Borealis

di Matteo Della Bordella

Guidati da Erik il Rosso, i vichinghi approdarono in Groenlandia intorno al 985 d.C.. Giunsero sulla costa sud orientale, stabilendo fattorie e piccoli insediamenti per dedicarsi ad allevamento ed agricoltura. Le rovine di questi ultimi sono ancora visibili nella zona dell’isola di Skjoldungen.
Per ragioni ancora dibattute e non chiare  verso la fine del XV secolo le colonie furono abbandonate. Una delle ipotesi più accreditate è che la piccola era glaciale di metà medioevo avesse reso impossibile la vita in Groenlandia per via dell’estremo freddo. Leggende narrano che le colonie siano state irraggiungibili per alcuni anni, a causa dei ghiacci marini e, quando finalmente la prima nave riuscì ad arrivare nuovamente dalla Scandinavia, ogni forma di vita umana era scomparsa, case e villaggi erano ormai deserti.
Alcuni secoli dopo, furono gli Inuit a stabilire un piccolo villaggio sull’isola di Skjoldungen. La comunità locale sopravviveva tramite la caccia e la pesca e il piccolo insediamento nel 1965 contava circa un centinaio di abitanti.
Sembra una beffa, ma questa volta fu l’avvento della tecnologia a portare a un nuovo abbandono: con l’arrivo del telefono gli abitanti locali iniziarono a chiamare i villaggi “limitrofi” per le emergenze sanitarie. Tuttavia il villaggio più vicino, ovvero Tassilaq, dista 500 chilometri di mare. Raggiungere Skjoldungen in caso di emergenza aveva dei costi esorbitanti e dei rischi enormi, furono infatti di più gli incidenti tra i soccorritori per il mare mosso ed il lungo tragitto che le vite salvate. Così, a metà degli anni ’70 il governo danese prese la decisione di chiudere definitivamente questo insediamento e trasferire le persone che vi abitavano in altri angoli della Groenlandia.
Forse è il destino a decidere che certi luoghi non siano adatti ad ospitare una presenza umana permanente.
Questa premessa di carattere storico e culturale è doverosa e necessaria per capire il contesto in cui ci troviamo: l’isolamento totale di questo angolo di Groenlandia, dove è la natura a dettare le leggi.

Silvan, Symon, Alex ed io abbiamo solo una foto della parete e le sue coordinate gps, niente altro. Sono mesi che stiamo portando avanti una preparazione minuziosa e dettagliata, con allenamenti in kayak frequenti e infinite discussioni su ogni singolo attrezzo da portare con noi. Sono anni che sogno di visitare questo posto.
L’esperienza accumulata nelle nostre precedenti spedizioni ci fa sentire pronti, ma sappiamo che ogni grande avventura inizia sempre con qualcosa che non va per il verso giusto.

Poche settimane prima di partire ci viene segnalato che quest’anno la quantità di ghiaccio marino presente sulla costa Est della Groenlandia è anomala, nettamente superiore alla norma degli anni precedenti. Questo è per noi un problema quasi insormontabile perché la presenza di pack ice sul mare ci impedisce anche solo di partire per il nostro viaggio. Ormai per noi alpinisti sono le anomalie a rappresentare questa nuova normalità, fatta di fenomeni estremi che non ci saremmo mai aspettati. Non siamo a conoscenza delle ragioni precise di questo fenomeno, ma se pensate che, con questo ghiaccio, vorremmo negare l’evidente riscaldamento e fusione che la Groenlandia sta subendo negli ultimi decenni, vi sbagliate di grosso. È importante non commettere il classico errore che fa chi nega il cambiamento climatico solo perché nel weekend ha preso freddo in montagna: una cosa sono le nostre percezioni dei fenomeni locali, un’altra i dati oggettivi del clima su scala più ampia, e questi ultimi parlano chiaro, indicando un surriscaldamento dell’artico e una fusione della calotta.
Siamo costretti a rimandare tutta la nostra spedizione di una settimana per via del ghiaccio. Quindi, una volta arrivati in Groenlandia, dobbiamo ancora attendere cinque giorni prima di poterci muovere con i kayak. Infine, un po’ per testardaggine, un po’ per disperazione, decidiamo di dare inizio all’avventura.

Con noi abbiamo cibo per 32 giorni, 4250 kcal a testa al giorno che si incastrano come le tessere di un puzzle, insieme a tutto il materiale da scalata, all’interno dei nostri kayak. I primi giorni li passiamo a cercare la strada nel labirinto di ghiacci che ricoprono ancora l’oceano. Sono giornate lunghe ed estenuanti, dove passiamo tra le 10 e le 12 ore a pagaiare. Capita di metterci anche sei ore per fare solo nove chilometri, o accorgersi di essersi infilati in un “vicolo cieco” bloccato dal ghiaccio e dover tornare indietro per cercare una nuova strada.

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Dopo cinque giorni dalla nostra partenza e circa 200 chilometri alle spalle, il paesaggio cambia: gli enormi ghiacciai che scendono fino al mare, lasciano il posto a rocce e anfratti verdeggianti. Quando nel bel mezzo del nulla ci imbattiamo nelle rovine di un insediamento vichingo, il pensiero corre a questi uomini e donne coraggiosi giunti fino a qui oltre 1000 anni fa. Una tempesta di straordinaria violenza ci sorprende e ci tiene rinchiusi per sessanta ore filate nelle nostre tende. Le attrezzature e la sopportazione sono spinti al limite: è emblematica la faccia stravolta con cui mi guarda Symon, una volta passato l’uragano. La tenda sua e di Alex non ha retto ed hanno passato una notte infernale: la mattina si ritrova a strizzare il sacco a pelo da cui escono litri e litri di acqua. Ma come diavolo potevano degli esseri umani anche solo pensare di vivere qui con le attrezzature ed i vestiti medievali?

Quando ci rimettiamo sui kayak abbiamo una notizia buona e una cattiva. Quella buona è che il ghiaccio è stato quasi completamente spazzato via dalla tempesta. Quella cattiva è che il maltempo ha agitato il mare. Non appena usciamo dalla baia ci troviamo sbalzati da onde alte fino a tre metri e mezzo. Dal punto di vista mentale per me è il momento più difficile della spedizione: so di essere preparato per affrontare questo mare, ci siamo allenati nel mare Tirreno con onde di altezza simile, è qualcosa che abbiamo messo in conto. Qui la temperatura dell’acqua però è di 0 gradi, vedo le onde infrangersi contro gli scogli in un tripudio di schiuma, i miei compagni appaiono e scompaiono, nascosti dalle montagne di acqua che si muovono davanti a me. Non posso sbagliare e continuo a ripetere a me stesso che sono perfettamente in grado di pagaiare in queste onde, per mantenere la calma.


È il decimo giorno da quando siamo partiti e finalmente imbocchiamo il fiordo di Skjoldungen, è largo circa 2 chilometri e si snoda come un serpente con curve repentine per circa 60 km di lunghezza, spingendoci sempre più al riparo. Sembra quasi che la strada diventi in discesa: sospinti da un forte vento alle spalle ci sembra di volare sull’acqua fino al nostro campo base.

La scalata non inizia nel migliore dei modi, anzi. Già il primo giorno, durante la perlustrazione verso la parete, perdo il drone, che probabilmente si schianta ed ora giace su qualche cengia. Il secondo giorno Symon ed io attacchiamo, ma dopo poche ore si mette a piovere e siamo costretti a ritirarci.
Torniamo in parete due giorni dopo: Silvan e Alex salgono davanti, io e Symon seguiamo. La giornata scorre piacevole e riusciamo a percorrere 300 metri, fissando in parete tutte le nostre corde dinamiche da arrampicata. Sappiamo già però di dover scendere perché è prevista pioggia battente per i giorni successivi.

Tornati al campo base ci dilettiamo nella pesca dei salmoni: un ottimo supporto proteico alla nostra dieta, che fino a quel momento è stata dominata da pasta e formaggio.
Tuttavia l’attesa si prolunga e la pioggia dopo un paio di giorni si tramuta in neve sulle pareti.
Quando la perturbazione finisce facciamo due calcoli, ci accorgiamo di essere già oltre la metà del tempo a disposizione e ci manca ancora la parte principale, ovvero la scalata della parete Nord Ovest del Droneren, un colosso di 1200 metri ancora vergine.
Pensiamo di avere ancora tempo a sufficienza, ma quando il giorno successivo torniamo in direzione della parete e la vediamo tutta sporca di neve iniziamo a sentire la pressione di dover andare in parete ad ogni costo.
Uno dei più grandi errori, da non commettere mai in montagna, è proprio quello di sentirsi spinti a scalare da un vincolo che sta sopra di noi, come può essere il tempo e il cibo che scarseggiano o l’impressione di non avere altre chances, o una pressione derivata dal confronto con altri alpinisti (quest’ultima ovviamente in una situazione diversa da quella attuale). Discutiamo a lungo se iniziare la scalata o meno, ma alla fine propendiamo per attendere ancora due giorni, affinché la parete scarichi la neve in eccesso.
L’ottavo giorno dal nostro arrivo al campo base sembra essere la volta buona: cielo azzurro, aria tersa e una brezza tesa che dalla calotta polare si incanala nel fiordo.
Tuttavia, mentre risaliamo il pendio, questa brezza inizia a diventare “un po’ troppo tesa”, con raffiche violente che disturbano la nostra marcia.
Una volta in parete capiamo che la situazione è seria: pur essendo bassi e protetti da un muro di 1200 metri il vento è tempestoso. Sentiamo echi di scariche di sassi lontane da noi provocate dal vento. Siamo impauriti, ma allo stesso tempo fiduciosi per un miglioramento.
Sono immerso nei miei pensieri e mentre seguo la maniglia jumar che morde la corda d’arrampicata, sento delle urla nel vento. E’ Symon il quale mi dice che la corda successiva è rovinata e non si fida a risalirla.
Non so cosa rispondergli e lo raggiungo per capire meglio la situazione.
A parer suo una scarica di sassi è caduta proprio in questa zona di parete danneggiando il nostro materiale. Decide comunque di cominciare la risalita, assicurandosi però anche con la longe a un friend.

La corda sembra reggere il peso ma, non appena Symon inizia a dare alcuni strattoni decisi per testarla, come un elastico si spezza e rimbalza verso il basso. Symon pendola appeso al friend con l’altra longe e mi guarda scioccato. Di fatto siamo entrambi appesi solo a quel friend, con raffiche di vento che incalzano sempre più forti e scariche che potrebbero cadere da un momento all’altro.
La parola d’ordine è una sola: ritirata!

Mentre scendiamo al campo base il vento aumenta ulteriormente di intensità, nuvole di polvere vengono sollevate dalla morena e turbinano nell’aria, le raffiche talvolta ci stendono a terra e capiamo che i nostri timori sono fondati: è il famigerato “Piteraq”, un vento catabatico che dalla calotta glaciale della Groenlandia scende verso il mare Artico e sfugge ai modelli meteorologici. La nota positiva di questo fenomeno è che normalmente si esaurisce nell’arco di dodici ore. Infatti nella notte le raffiche si attenuano e la mattina successiva torna la calma.

A questo punto il ritardo accumulato sulla nostra tabella di marcia è incolmabile. Ci troviamo di fronte ad una scelta: o iniziamo il rientro immediatamente o proviamo ancora una volta a salire, consapevoli del fatto che sarà impossibile completare tutto il tragitto in kayak al ritorno.
Siamo tutti d’accordo nel scegliere questa seconda opzione che lascia la porta aperta a molti rischi, ma che finalmente si rivelerà risolutrice per la parte alpinistica.
La salita dura tre giorni e finalmente scorre senza imprevisti. Il tiro più difficile della via è quello aperto da Silvan con i pecker: una placca di 7b che se avesse avuto tre spit sarebbe stata piacevole, ma con quelle protezioni, in quella situazione, la caduta è vietata. Io la salgo da secondo e dall’alto spiego per filo e per segno i movimenti a Symon, il quale assicurato da Alex la libera in stile “flash”.

Dopo un gelido bivacco e 35 tiri di corda totali, durante i quali ci siamo alternati tutti e quattro al comando della cordata, sbuchiamo in cima ai 2050 metri della calotta di neve sommitale del Droneren. Siamo i primi a salire la parete, non sappiamo con certezza se siamo o meno i primi a violare questa vetta, ma la probabilità è alta. Si apre alla nostra vista un panorama mozzafiato e lo sguardo spazia verso l’infinito bianco della calotta artica da un lato e il blu dell’oceano dall’altro. I nostri occhi si riempiono di questa bellezza, che ci fa sentire quanto mai dei piccoli granelli di polvere che vagano in questo ambiente selvaggio.

Durante la discesa bivacchiamo una seconda volta. Dopo ore di fatiche e privazioni crollo in un sonno profondo. Immerso nei miei sogni, sento le voci dei miei compagni che mi chiamano, ma niente riesce a strapparmi dalle braccia di Morfeo. La mattina seguente i miei compagni mi spiegano che avrebbero voluto svegliarmi per farmi vedere l’aurora boreale, ma non c’è stato verso e quindi me la mostrano sugli schermi dei loro smartphone!

Ma l’ultima (e più grande) sorpresa deve ancora arrivare…Completiamo la discesa a corda doppia e facciamo ritorno al campo base, dove, dopo qualche ora di sonno, iniziamo a prepararci al rientro in kayak.
Siamo indaffarati nell’impacchettare il nostro materiale, quando Symon in tutta calma dice “Ragazzi, mi sa che abbiamo visite”. Mi volto sovrappensiero e resto meravigliato. La pelliccia bianchissima, il muso aguzzo e lo sguardo fiero. E’ proprio un orso polare che, con andatura sobbalzante ma decisa, viene verso di noi.
Dopo lo stupore iniziale, inizia a farsi largo la paura. Ci stringiamo in formazione da testuggine romana e Silvan imbraccia il fucile. Mentre noi scattiamo ancora foto e video, Silvan spara due colpi in aria, ma l’orso non fa una piega e procede dritto per la sua strada. Gettiamo per terra le macchine fotografiche ed iniziamo a parlare; ora l’animale si trova a 6-7 metri da noi.

Con decisione Silvan spara un altro colpo, questa volta molto vicino all’orso e finalmente il nostro amico quadrupede fa retromarcia e si allontana.
Possiamo tirare un sospiro di sollievo per lo scampato pericolo, anche se mi sento un po’ in colpa, perché so che l’orso stava solo seguendo il suo istinto, mentre noi eravamo a casa sua. Salutiamo a distanza il nostro quinto compagno di cordata che nel frattempo gironzola per quello che fino ad un’ora prima era il nostro campo base e ci rimettiamo in viaggio con i kayak.

Qui inizia la parte fisicamente più dura della spedizione: decidiamo di fare i turni di guardia di notte per evitare che un altro (o lo stesso) orso arrivi mentre stiamo dormendo. Il primo turno è dalle 10 a mezzanotte e mezza, il secondo fino alle 3 di notte, il terzo dalle 3 alle 5,30, quindi l’ultimo fino alle 8 quando suona la sveglia per tutti. Dopodiché ci mettiamo nei kayak e pagaiamo per 12 ore nella speranza di recuperare almeno in parte il ritardo accumulato.
Il termine delle provviste alimentari e del tempo a disposizione mette fine alla nostra sufferfest dopo 150 chilometri di pagaiate, esattamente la metà di quanto fatto all’andata.
Il trentatreesimo giorno di spedizione una barca ci viene a riprendere e ci riporta a Tassilaq.

Odyssea Borealis, il nome dato alla nostra via, per me non è solo il ricordo di una scalata o di un viaggio, piuttosto è un manifesto, un richiamo a quel desiderio innato di scoperta che appartiene all’uomo. È un invito a guardare oltre l’orizzonte, non con gli occhi della conquista, ma con quelli della meraviglia. Odyssea Borealis per me significa tornare all’essenza, riscoprire la semplicità e la purezza dell’avventura umana. 

In un’epoca in cui la tecnologia sembra aver mappato ogni angolo del pianeta, Odyssea Borealis mi ricorda che l’ignoto esiste ancora.

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