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Misto selvaggio sul Pizzo di Prata

di Simone Manzi

       
Sono qui davanti allo schermo del computer e proprio non mi viene in mente come iniziare. Sarebbe decisamente meglio averlo davanti il Pizzone, con la sua parete nord-est illuminata dagli ultimi raggi del sole al tramonto oppure impiastricciata di neve e ghiaccio dopo una bufera invernale.
Ma oggi le nuvole sono basse e si vedono a malapena i boschi di castagni poco sopra le case di Prata.
Provo allora a pensare, non ad un’immagine definita ma ai sentimenti che ogni volta provo guardandolo da diverse angolazioni, sognando e immaginando linee, in estate o in inverno, sulla selvaggia parete o sulle creste, a cosa è stato per me fin da quando ero bambino e dell’alpinismo nemmeno conoscevo l’esistenza.
 
 
Il Pizzo di Prata (o Pizzone) è una montagna simbolo per chi vive in Valchiavenna: aguzzo da Gordona, imponente dal lago di Novate, ombroso e ben poco amichevole da Chiavenna. I sentieri (se così si possono chiamare..) che ne raggiungono la cima sono molto lunghi, con tratti tecnici ed è più facile perderli che trovarli. Alcuni incidenti successi negli anni ‘60/’70 sulla parete nord-est e sulla normale hanno gonfiato la cattiva fama di questo gigante buono; così quando da ragazzo, innamorato escursionista ravanatore, chiedevo informazioni sulla salita mi sentivo sempre rispondere che era pericoloso, “*impossibile salire senza qualcuno che conosce già il sentiero”, “ci è morto anche un prete!” *mi diceva mia nonna alludendo alla prematura scomparsa (si pensa avvenuta in alta Val Masino) di un visionario dell’alpinismo poco conosciuto, parroco ad Uschione sopra Chiavenna e autore di prime salite in solitaria tra cui la cresta nord-ovest e la parete nord-est del Pizzo di Prata.
 
 
E’ stato proprio questo aspetto selvaggio che mi ha da subito intrigato: la necessità di scovare la poco evidente via di salita della normale, la scelta di quali torrioni della frastagliata cresta nord-ovest salire direttamente e quali invece aggirare da sinistra o da destra, la salita nel cuore della parete lungo la via “Viaggio sul Monte Analogo” con molto materiale all’imbrago e ben poco tra una sosta e l’altra; e ancora, in una stupenda cornice autunnale, la traversata integrale in cresta delle cime del Gruppo, partendo dalla cresta nord-ovest del Pizzone all’alba fino ad arrivare in cima al Corno di Garzonedo accompagnati da un tramonto infuocato.
 
 
Ognuna di queste avventure ha segnato tappe importanti nella mia personale crescita alpinistica ma soprattutto nella costante e continua ricerca di quegli intimi momenti di felicità che da soli valgono gli sforzi e le paure affrontate.
Dopo questa “BREVE” introduzione parliamo quindi dell’ultima di queste avventure dietro (o davanti) casa.
Erano diversi anni che tenevo d’occhio la parete nord-est del Pizzone in inverno; una linea in particolare, la più evidente, iniziava ogni anno a formarsi per poi essere ricoperta dalla neve o sciogliersi a causa delle anomale temperature di questi anni. Questa linea ripercorre in buona parte la via “Ielmi-Mezzera”, aperta nell’estate del 1933 e poi salita con alcune varianti nell’inverno 1986 dai fratelli Guido e Massimo Lisignoli e in solitaria da Rossano Libera nel 2014.
Finalmente a gennaio 2020 sembra che gli astri si stiano allineando, la neve è poca e le pareti nord sono in condizioni atomiche! Colate di ghiaccio e massetti di neve simil cemento armato.. o almeno credo, perché l’anno non inizia benissimo e dopo un paio di infortuni sfiorati e un casco esploso mi rompo il calcagno cadendo in falesia. Preghiere e canti si alzano al cielo e i salti di ghiaccio blu dei primi tiri rimangono a sbeffeggiarmi di fronte a casa per quasi un mese.
Ma forse era giusto così, bisogna desiderarla veramente una cosa per poi apprezzarla fino in fondo.
A novembre scorso (come sempre) gli occhi sono puntati sulla nord-est, la parete non è male e sta migliorando anche se il vento forte non vuole mollare. Le previsioni danno due giorni di tempo stabile e con meno vento, il primo giorno non riesco a liberarmi e il terzo arriva la neve. Potrebbe coprire tutto e non voglio lasciar andare un’occasione come questa. Sento Jack (alias Simone Giacomelli), è gasato e si va! Lui però è a Bormio, parte dopo cena per venire a dormire da me, facciamo gli zaini ma manca un martello che recupero tra gli attrezzi di mio papà, i chiodi lassù servono sempre.
 
 
Qualche ora di sonno e si parte (in ritardo ovviamente); durante l’avvicinamento fantastichiamo su come sarà la salita, su quello che sembra essere il tiro chiave, secco, in un diedro a due terzi di parete ed eccoci all’attacco alla luce dell’alba. La parete è perfetta, il vento poco, partiamo gasati e il primo tiro ci esalta; già sul secondo però battuta d’arresto! Un camino ostico e non proteggibile anche se lungo solo pochi metri mi obbliga a togliere lo zaino e strisciare all’interno con i ramponi facendomi perdere una vite da ghiaccio.
 
 

Dopo questo rallentamento torniamo a procedere velocemente a comando alternato su terreno misto e ghiaccio mai difficile fino alla base del diedro.
La linea è una figata, la parete selvaggia e penso al Ross da solo in questo punto.

 
 
Il diedro, secco e su roccia non proprio solida, mi impegna al massimo e dopo 55 metri riesco a fare sosta. Il cielo si è annuvolato ed è tornato il vento ma mancano solo una decina di metri all’uscita del diedro, poi dovrebbe appoggiare…
Ed effettivamente appoggia, ma da questo punto in poi la neve non ha trasformato e ci troviamo ad affondare fino alle ginocchia. Dovrebbe esserci una cengia nevosa che prima scende e poi traversa a destra ma quando mi affaccio la vedo finire contro una serie di lisce placche interrotte da lame rovesce. A sinistra non parliamone, la parete si tuffa ripida sul versante esposto ad est verso il canale Buzzetti. Saliamo quindi dritti con l’obiettivo di raggiungere un sistema di diedri e nevai pensili che dovrebbero condurci fino in cima.
 
 
La scalata è tecnica e delicata, su placche spesso ricoperte di neve polverosa, diedrini e fessure superficiali; quello che pensavo sarebbe stato il tratto facile della via diventa il più complesso e le ore passano velocemente. Anche il tempo continua a peggiorare e adesso oltre al vento nevischia anche. Cerco di accelerare i tempi scalando il più veloce possibile, ormai gratto la roccia con le piccozze e i ramponi senza far troppo caso su dove si fermino ma è un gioco pericoloso soprattutto in quelle condizioni; me ne rendo conto e visto che ormai siamo lì ci mettiamo il cuore in pace e torniamo concentrati e senza fretta. Un ultimo tiro molto delicato ci porta pochi metri sotto la cresta che collega le due cime che raggiungiamo in mezzo alla bufera.
La discesa che avevamo in programma dal versante est in quelle condizioni è infattibile e optiamo per il lungo “sentiero” della normale che sale da Pratella. Percorriamo la cresta fino alla croce di vetta, siamo stanchissimi ma felici!!
 
Come dice Jack però non possiamo “chillarcela”, abbiamo 2000 metri di discesa su sentiero non segnato, al buio e nella bufera che ci impegna per altre 5 ore; il canale della Porta ci regala anche una divertente disarrampicata di un centinaio di metri su ghiaccio secco e appoggiato. La classica ciliegina.
A mezzanotte mio papà, che non sapeva cos’altro fare, è ad aspettarci nel parcheggio di Pratella e ci riporta a casa dopo quasi 20 ore dalla partenza.
Le nevicate dei giorni seguenti e il caldo a dir poco anomalo di dicembre fanno migliorare ancor più le condizioni della parete, soprattutto nella parte alta; due cordate a fine dicembre e inizio gennaio colgono l’occasione e salgono velocissimi: i primi sono gli amici Gabriele Paolucci, Filippo Lisignoli e il Chino (all’anagrafe Marco Geronimi) che corona un sogno cullato per decenni! Nei primi giorni del 2024 sono invece Angelo Curti e Jorge Palacios a ripetere questo selvaggio e raro gioiello che adesso, quando lo vedo scendendo da Madesimo, mi fa l’occhiolino. E io sorrido, semplicemente felice.
 
 

POST SCRIPTUM

Ho voluto lasciare il testo dell’articolo così come l’avevo scritto prima del fatale incidente; mi piaceva ed era il racconto autentico di tante avventure, una su tutte quella che abbiamo vissuto insieme l’autunno scorso.

E’ uscito il sole dopo questo lungo periodo di piogge, ma non sorrido più e non mi sento felice. Hai lasciato un vuoto dentro ognuno di noi, un vuoto che non credo sarà mai colmabile. Forse il tempo aiuterà, questo senso di assoluta tristezza e i pensieri che tornano a quel momento, in ogni attimo di silenzio o pausa, forse diminuiranno, ma eri troppo contagioso nel tuo misto di brontolare e sparare cazzate a raffica, entusiasta di ogni minuto passato in montagna e con la battuta sempre pronta, sparata nel momento meno opportuno ma proprio per questo fantastica. Troppo di tutto questo per non sentire la tua pesante mancanza. Ci siamo conosciuti in una torrida settimana ad Arco durante il corso, con il Ferro eravate la coppia vincente. E’ passato solamente poco più di un anno da quando siete arrivati a Madesimo, tu Pozzino e il Vallo, ma a me sembra un’eternità; abbiamo condiviso tanti momenti e giornate a lavoro, in montagna o al bar. Resterai per sempre impresso nel cuore e nella memoria Bro.. beccati sta Pic!

 

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