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La Ruta de lo Hermano

pierg.14Questa sera tocca a Jim portare la bottiglia di vino tinto, ma mi sa che non sarà solo per noi due: Sergio, il custode della Pedra del Fraile, ha promesso un asado ( vedi foto, ndr) e così ci saranno anche i ragazzi.
Loro si accontentano del tempranillo in cartoccio, ma un bicchiere di Mendoza non potremo negarglielo. Jim è Donini e il caso ha voluto che in questa estate australe del 2007 ci trovassimo allo stesso campo. Ci conoscevamo di nome, per non dire di fama che fa un po’ supponenza e un po’ museo, ma non c’ermo incontrati di persona prima. Sarà l’età, praticamente la medesima, sarà la comune passione per la Patagonia, sarà…
che ci siamo trovati subito. Il nostro appuntamento pomeridiano sotto la tettoia è in breve diventato un piccolo rito dei giorni di brutto o di inattività. Ecco che arrivano gli affamati, pioviggina e l’asado è quasi pronto. Li vedo attraverso il fumo denso della plancia – sale scende, fa tutti gli andamenti imposti dal vento, neanche il fumo di un falò è
normale in questo paese – mani in tasca, incurvati nei loro pile, quasi volessero nascondersi dall’umido e dall’aria. Eccoli li, sghignazzanti mentre ci guardano. Si staranno chiedendo cosa abbiamo da raccontarci da così tanti giorni e soprattutto in che lingua. Io non parlo inglese, Jim non parla ne italiano, ne francese, ma ci intendiamo. Il castigliano
imparato in tante uscite in Argentina e un po’ di mimica ci fanno andare avanti per ore.
Siamo qui con lo stesso spirito, accompagnando giovani alpinisti verso una meta. A dire il vero i suoi sono molto più giovani, sembrano dei ragazzini e lo sono, quasi tutti studenti, seguono il capo ed il mito nel tentativo di aprire una lunghissima via sul Fitz usando solo protezioni veloci. Un
progetto che dura da anni, ma anche quest’anno sembra poter non essere l’ultimo, il tempo passa e lo si capisce dai gruppetti di ragazzi e ragazze che si avvicendano ogni tre settimane. Lui è sempre qui e non vuole mollare fino all’ultimo giorno utile. Poi dovrà rientrare per il congresso nazionale dell’ American Alpin Club di cui è presidente. Lo spiego a uno dei miei e mi viene da ridere. Non è per la maschera da sci che questi ha indossato a protezione del fumo, visto che ride anche lui…
Forse abbiamo fatto lo stesso pensiero, il presidente del Club Alpino Italiano, da solo, con dei giovani alpinisti su un grande obiettivo... sì, fa proprio ridere il solo pensarci. Da anni propongo una cosa simile in Italia, ma nessuno ci sente. Così faccio da me, come da tradizione lecchese. Non conto più gli alpinisti che ho convinto a tentare il Piergiorgio, ed ormai sta diventando un’ossessione. Le prime volte, c’era ancora Casimiro Ferrari, sembrava si trattasse solo di una questione di tempo. Miro era abile a nascondere le reali difficoltà per convincere i più giovani, ed inesperti, a seguirlo. Parlava di una grande parete di granito, di una linea graziosa in mezzo alla parete, poi quando si è lì...
Per me è la seconda volta alla guida di un gruppo su questo obiettivo espero sia la volta buona. Gli alpinisti giusti ci sono, ma l’esperienza mi dice che può non bastare.
Nel 2003 avevo con me una squadra di alpinisti da paura. Il più scarso
arrampicava sul 7c, in montagna, e tra loro c’erano dei veri fuoriclasse –
Pedeferri, Daniele Bernasconi, Selva, Vago, ma non bastò. Così come non
sono bastati i due mesi di attesa. Due mesi di acqua costante in una
stagione in cui dopo dicembre non è stata salita una sola montagna
patagonica, nonostante in giro ci fossero gli Huber, i Bole e tanti altri.
Una stagione ricordata per l’invasione di bruchi – le nostre gattole –
all’assalto di ogni forma vegetale. Vennero saliti sessanta metri di via
ed al ritorno, in una Lecco sempre più pronta a bastonare i propri
alpinisti che a riconoscerne i meriti, fummo attaccati aspramente.
Qualcuno, di quelli abituati a dare buoni consigli senza mai esporsi
apertamente, dopo un articolo uscito su un giornale locale dal titolo
emblematico : “ Quei maglioni rossi un po’ sbiaditi” , arrivò a
consigliare al mio presidente di dimissionarmi, dimenticando che anch’egli
era stato in Patagonia per un mese e ben conosceva le reali condizioni
della stagione. Mi fece molto male e mi dissi che il Piergiorgio non
sarebbe stato un capitolo chiuso.
Ci sono voluti quattro anni, nuove motivazioni, nuovi alpinisti e altri
soldi. Sono appena trascorsi i sessant’anni del Gruppo Ragni e dopo
diverse spedizioni e diverse salite sulle Alpi ci voleva un
bell’obiettivo. In realtà ne escono due. Il Piergiorgio e un’idea
visionaria sulla Mermoz. Quest’ultima forse in anticipo sui tempi.
Da qualche anno il mio cliente-amico Gianfelice Rocca mi offre la
possibilità di finanziare la realizzazione di un sogno in Patagonia in
memoria del fratello Agostino, morto in un incidente aereo mentre veniva
in questo luogo che tanto amava. Tutta la famiglia si sente coinvolta e i
ragazzi sono ancor più motivati da tanta passione.
Siamo decisi a restare quanto serve.
Nei primi giorni sono stati fatti i trasporti ed è stato allestito un
piccolo campo in un punto del canale di accesso riparato dalle scariche.
Poi abbiamo aspettato il bel tempo. La settima scorsa ci sono stati
quattro giorni di tempo stabile. I quattro si sono organizzati in due
cordate. Hervé Barmasse e Giovanni Ongaro, una cordata di esperienza anche
sul terreno dove l’artificiale diventa un obbligo, Cristian Brenna e
Matteo Bernasconi, più veloci nella libera.
Quattro giorni, quattro tiri… roccia strapiombante, compatta, senza
possibilità di chiodare. Su quelle lastre di granito rosso, come una
beffa, appaiono le sagome grigie dei flakes usati nei tentativi degli anni
novanta per piantare rurp e chiodini vari. Dopo il fissaggio delle corde i
tiri vennero schiodati pulendo di fatto la parete da queste preziose
croste superficiali. Chi si aspettava ci volesse tanto? Adesso non ci sono
più nè flakes, nè chiodi, nè fisse. Bisogna rifare tutto inventando
qualcosa di nuovo. Si va di punteruolo e cesello, ganci americani di cui
non so scrivere il nome, nastro adesivo e maledizioni per la fatica;
preghiere ogni volta si carica un nuovo aleatorio ancoraggio. Quattro tiri
in quattro giorni, centocinquanta metri dei quasi mille di lavagna, c’è di
che preoccuparsi.
I ragazzi sono incredibilmente tranquilli, conoscono bene l’umidità della
truna, quando il sacco a pelo diventa un grumo appiccicoso e ha poco a
vedere con il caldo bozzolo delle pubblicità. In truna o in tendina poi,
difficilmente trovi la biondona della stessa reclame. Ci sono i tuoi
compagni e ci devi convivere.
Cristian mi ha prima preoccupato, poi incuriosito e infine meravigliato.
Viene dall’arrampicata di competizione, dove i chilometri di ghiacciaio, i
canali, i rumori e una parete vergine su cui scoprire una linea di salita
celata dalla natura sembrano cose di un altro mondo. Lui si è preparato e
cammina sul ghiacciaio di avvicinamento con trenta chili sulle spalle come
fosse sempre stato il suo mestiere. E’ sacrificato su questo terreno dove
non può esprimere le sue doti in libera, eppure non se la prende. Anzi si
diverte, - è una nuova esperienza – dice.
+ + +
Jim è partito, non è riuscito a finire la sua via prima del congresso.
L’autunno è alle porte, ormai è marzo, e anche i turisti cominciano a
scarseggiare. Le nevicate sono sempre più frequenti. E la Patagonia si
appresta a tornare una terra disabitata e selvaggia. Come mi è sempre
pi
aciuta. Ora c’è una linea disegnata su quegli strapiombi. L’idea di
Miro, una via in mezzo alla parete, prende forma. I ragazzi ci hanno dato
dentro per sfruttare i buchi decenti tra una bufera e l’altra. La linea è
di una quindicina di tiri, ma soprattutto mancano cento metri al fondo del
mostro, il taglio netto a tre quarti della parete di cui non si capisce il
mistero.
A ogni cambio di luce muta la forma. Con il sole del mattino proietta
un’ombra gigantesca, sembra un blocco diviso dalla parete da un grande
camino. In ombra diventa una ruga, impossibile capire da sotto cosa celi e
la curiosità è tanta. Raggiunto il mostro magari diventa più semplice, o
magari diventa arrampicabile, o magari…
Per quest’anno non lo sapremo.
Eccoli qui i ragazzi lavati, infreddoliti. L’autunno è iniziato e un velo
di ghiaccio comincia a dipingere la parete per la muta invernale. Ora è
tempo di tornare a casa, domani forse, sarà tempo di provarci ancora.
+ + +
2008. Jim non c’è, ha finito la sua via ed è partito prima del mio
ritorno. Manca anche Matteo Bernasconi, impegnato nei corsi guida…
peccato, perlomeno i conti della cerveza saranno più corti.
Cristian, Giovanni ed Hervé sono qui, o meglio sono già su. Non pensavo
volessero tornare. Su quella lavagna, su quella linea d’altri tempi, con
quell’arrampicata anacronistica, fatta di tempi lunghi, artificiale e
gambe indolenzite nelle staffe.
Abbiamo preso un impegno – hanno detto… con me? Non credo. Con se stessi?
Nemmeno, troppo distante dal senso gioioso ed estetico della loro
arrampicata solare e scanzonata.
Con la storia da cui vengono. Più ci penso e più capisco quanto questa
salita stia diventando una cerniera tra la tradizione dei Ragni ed il loro
futuro. Sotto questa tettoia, la stessa di sempre, dove non c’è più il
fumo di Sergio (non gestisce più il Fraile) comprendo il senso di questa
nuova trasferta.
Cristian, Giovanni ed Hervé dimostrano come si possa decidere di fare
qualcosa di apparentemente insensato per un motivo preciso, non per forza
il più ovvio.
Cristian e Giovanni salgono questa montagna non per la bellezza, per la
linea o per il problema tecnico in se, ma per il significato che questa
parete ha per il loro maglione!
Anche Hervé, discendente dalla tradizione delle Guide Alpino del Cervino,
ha un legame con la storia da coltivare. Lo ha fatto anche lo scorso anno,
al ritorno da qui, salendo in solitaria una via aperta dal padre sul
Cervino tanti anni fa.
Ci sono vie orrende salite per il fascino della storia di cui sono
intrise, basti pensare alla Heckmair all’Eiger; e questa è così.  Non
tutti lo capiranno, ma non importa. Anzi è ancora più affascinante, più
intimo. E Cristian, che continua a meravigliarmi, ne è travolto. Non si
preoccupa della libera, della possibilità, con le sue doti, di fare qui
difficoltà mai salite. Non gli interessa, vuole la cima. La metamorfosi è
completa, è diventato un grande alpinista.
Rocce taglienti, cumuli, sabbia, cespugli. Le bacche dal sapore di mela, i
guadi (odio i guadi), il ghiaccio decadente di questo clima impazzito,
rivestito di sfasciumi ordinatamente disposti a segnarne il percorso, o
levigato dalle piogge. Quante volte ho fatto questo percorso verso la
parete, in compagnia dei miei soli pensieri.
Tutte le volte mi chiedo cosa succederebbe se succedesse qualcosa. Una
scivolata in una di queste voragini d’acqua del più bell’azzurro che
conosca e addio, bisogna stare vigili.
Alzo gli occhi e la macchina fotografica; magari riesco a vederli,
dovrebbero essere all’inizio del mostro, dovrebbero essere pronti a
svelarne il mistero.
Urla, grida, il sordo rumore del ghiaccio di vetro che si stacca, sibilo
di proiettili gelati, anche il sangue si mette in sintonia con gli
elementi, il mostro si difende lassù. .
Giovanni è stato preso, la radio gracchia le brutte notizie con la voce
improvvisa, ma calma e padrona di se. Le mani di Giò sono rimpicciolite,
le dita lussate sono infilate sopra il metacarpo. Bisogna fare qualcosa.
Hervè provvede a ridare a quelle estremità la forma usuale tirando le
dita, una ad una, prima che il gonfiore ed il freddo impediscano la
manovra. Poi un’altra meraviglia. Devono scendere seicento metri di
strapiombo calando Giò. Ma Cristian ed Hervé sanno il fatto loro sul
soccorso.
(Quanto tempo ho sacrificato al soccorso con Pino Negri, ed ecco lassù,
nel mio sguardo, vedo un’altra tradizione andare avanti.)
Cristian davanti con una corda guida, poi Giò calato da Hervé e recuperato
man mano da Cristian. Così, automaticamente fino alla base.
Io ho smontato tutto, non bisogna perdere tempo. E’ tempo di rientrare,
un’altra volta, per il Piergiorgio si vedrà.
+ + +
Giovanni è partito per l’Italia, a casa hanno spostato velocemente il
volo, e ancora grazie all’aiuto dei Rocca, sarà trasferito direttamente
dall’aeroporto ad una clinica specialistica. Le condizioni sembrano meno
gravi di quanto sembrasse al principio.
Al Fraile i ragazzi non ci sono, sono rientrati laggiù. Riparto, ancora
una volta da solo. Chissà cosa avranno deciso, sanno bene quanto sia
rischioso in due, cosa comporterebbe un altro incidente. Con questi
pensieri accelero il passo.
Dal fondo del canale li vedo, alti sulla parete. Non hanno esitato, domani
sarebbe troppo tardi e sanno che questo è l’ultima possibilità. Hanno
scelto di giocarsela, e sono contento. Faccio qualche scatto poi salgo. Li
avverto, per domani si prevede brutto tempo.
Avanzano. Alle due di notte è cumbre. Il Piergiorgio, la sua storia, le
persone che ci hanno creduto, quelle che non ne volevano sapere… capitolo
chiuso. E una convinzione “Quel maglione rosso è sempre più rosso”.
LA STORIA
Sul Piergiorgio la Patagonia ci ha messo due cose. La prima, è la roccia.
Dove astutamente sono andati un po' oltre la metà Giordani e Maspes è
bellissima e scalabile ( grande fiuto e grande tentativo del duo italiano,
e grandissima sfortuna nel 2004, quando Parimbelli e compagni stavano
andando dritti dritti verso la cima, concludendo una via bellissima,
quando una frana travolse Maspes, giù alla base a fare riprese,
lasciandolo vivo per purissimo miracolo ), ma dalle altri parti è spesso
un disastro, e dove tentò Casimiro Ferrari, come aggravante, è pure liscia
come una tavola di marmo. E poi, è un paravento, perchè è messo lì, giusto
per dar fastidio ai venti Patagonici che vorrebbero andare al Fitz senza
problemi e si trovano di fronte questo colosso. Di rabbia, ci danno
dentro, così che il Piergiorgio ha davvero pochi rivali, perfino in queste
terre, per come sbattono cose, persone e motivazioni.
Tra i primi a confrontarsi con la Nord del Piergiorgio troviamo Marco
Ballerini, che insieme ad Alessandro Valtolina effettuò nel 1984 un primo
tentativo sul pilastro Nordovest. L'anno successivo, seguendo questo
pilastro, i trentini Mario Manica e Renzo Vettori arrivarono in vetta dopo
aver tracciato la via "Greenpeace" (800 mt, difficoltà fino al VII e A1),
seconda salita assoluta alla cima di questa montagna (la via normale passa
sul versante opposto alla Nord).
 Nel 1995 i Ragni di Lecco Casimiro Ferrari recluta una squadra di ragni
di Lecco di eccezione, decide di attaccare esattamente a metà ( “la via
dei ragni deve passare in centro!”), e parte l'inizio di una lunghissima
storia. In tre diversi tentativi e con diverse cordate Mario Conti,
Giuseppe Lanfranconi, Manuele Panzeri, Andrea Spandri, Riccardo Milani,
Antonio Taglialegne, "Det" Alippi, Mauro Girardi e Silvano Arrigoni
affrontano
la parete Nordovest nella zona centrale con una dura scalata,
in gran parte artificiale. Un bell'insieme di giovani ed esperti, ma non
basta. La linea di salita è repulsiva, la meteo quella che è.
 


Nel 2002 due americani Jonathan Copp e Dylan Taylor per un altro tentativo
di salita lungo i pilastri della parete Ovest fallito a pochi tiri dalla
cima.
 
La cronaca più recente vede ad inizio 2003 ancora un tentativo sul muro
della Nordovest di un agguerrito team di giovani Ragni di Lecco coordinati
dal Ragno "veterano" Mariolino Conti: Simone Pedeferri, Marco Vago,
Alberto Marazzi, Adriano Selva, Daniele Bernasconi, Matteo Piccardi e
Serafino Ripamonti superano qualche tiro di corda lungo la via dei Ragni
prima di abbandonare per il maltempo persistente, quell'anno il peggiore
del decennio. Un mese prima c'era stato il tentativo di tentativo del team
tedesco-ungherese di Thomas Tivadar, Gabor Berecz e Stephan Huber. Alla
base del muro, ancora prima che i tre cominciassero la loro via, la
violenza del vento sollevò e distrusse il portaledge non ancorato alla
parete con dentro gli alpinisti.
 Poi Giordani e Maspes, 13 tiri con difficoltà fino al 7a e A4 (via
"Gringos Locos").  Il 1996 vede la prima salita della parete Nord/Nordest
da parte del forte team formato da Pietro Dal Prà, Mauro Girardi, Lorenzo
Nadali e Andrea Sarchi. La via “Pepe Rayo" segue una serie di fessure
diritte per 650 m, 7a e A3, uso di corde fisse, via dedicata
all'alpinista spagnolo caduto in quei giorni nel canale d'attacco alla
parete. Silvio Karo ripetè la via trovando difficoltà inferiori.
Sempre nel '96, a dicembre, la coppia Maspes e Giordani non trova le fisse
in parete lasciate l'anno prima e così sale un nuovo itinerario che arriva
in cima alla Cumbre Nord della montagna passando per la goulotte del Colle
Nord e la cresta NE (via "Esperando la Cumbre", 2 giorni, stile alpino,
diff. VI/A1/70° e misto).
 
Quasi in contemporanea, il gruppo francese di Jerome Thinieres  prova al
centro della parete NW a destra del tentativo dei Ragni ma sale solo per 3
tiri di artificiale "new age" in sezioni liscissime della parete, con uso
continuativo di rivetti e bat-hook alternati a spit. Nel 2001 un piccolo
team francese formato da David Autheman e Michel Bordet apre il primo
itinerario sulla parete Ovest, via "All You need is love", 700 m,
difficoltà prevalentemente in artificiale fino all'A3.
Nel 2002 due americani Jonathan Copp e Dylan Taylor per un altro tentativo
di salita lungo i pilastri della parete Ovest fallito a pochi tiri dalla
cima.
Nella Primavera 2006 Maspes recluta Yuri Parimbelli, Kurt Astner e Hervè
Barmasse, e li lancia sul suo vecchio tentativo, rimanendo alla base come
coordinatore.  Yuri in libera è un maestro, Kurt è un dolomitista di
quelli tosti, Hervè è abituato al Cervino, al misto, alla roccia un po'
così. Di fatti la cordata va su, la meteo è anche positiva, ma ad un certo
punto vedono una frana enorme piombare verso la base e seppellire Maspes,
che sta facendo le riprese. Lo danno per morto, e scendono a tutta
velocità. Luca è invece miracolosamente vivo, ma anche questa volta si
dice basta. Il resto è la storia di questo articolo.
Come Mario Conti ha giustamente sottolineato, dopo il 2003 si scrissero
molte sciocchezze, ma d'altronde è normale non capire le cose se non ci si
sbatte il muso.  In Patagonia c'è gente come Huber, Bole e Fawresse che ha
passato due mesi in birreria...non basta essere fuoriclasse. Anche se
aiuta, come è accaduto nel 2008.
 
AUTORE: MARIO CONTI
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