Quest’anno Paolo Marazzi e Luca schiera, con l’amico Giacomo Mauri, sono tornati nuovamente sul Campo de Hielo patagonico per un’altra delle loro spedizioni alla ricerca di montagne e pareti sconosciute. Questa volta le cose non sono andate proprio nel migliore dei modi, ma, in fondo, anche questo fa parte dell’emozione e della bellezza dell’alpinismo più esplorativo. Ecco il racconto del viaggio nelle parole di Paolino.
Testo di Paolo Marazzi
Non sempre va come deve andare. Decidere di provarci non dà mai la certezza del successo – di raggiungere la cima e di tornare a casa.
Anche a questo giro ci abbiamo provato, ma ripensando alla spedizione che abbiamo fatto, oggi, da casa, ci è molto chiaro quanto fossimo lontani dalla cima e dal successo.
Il Campo de Hielo Norte è molto grande ed altrettanto poco conosciuto. Luca ed io ci eravamo già stati l’anno scorso ma le condizioni erano molto diverse, a partire dal fatto che avevamo delle informazioni sul luogo e le distanze. Vaghe, ma c’erano: sapevamo da che valle entrare, avevamo contattato persone che vi erano già entrate, e, soprattutto, avevamo delle foto di qualche parete della zona.
Questa volta invece avevamo solo intravisto una parete, enorme, sembrava una vera bomba. In realtà più che la parete vera e propria, avevamo visto un’ ombra, individuata su Google Earth, poco a sud del Cerro Arenales, in mezzo alla distesa di ghiaccio.
Non sapevamo quanto potesse essere alta, come arrivarci, se fosse di ghiaccio o roccia. In realtà non sapevamo nemmeno se ci fosse una parete.
Il 19 febbraio arriviamo in quella che ci sembrava essere, stando alle mappe, la valle giusta per entrare. Siamo in tre: Luca Schiera, Giacomo Mauri e io.
Tutto era stato perfettamente calcolato sulla base di quelle poche ed incerte informazioni che avevamo raccolto. Tra queste una vecchia foto in bianco e nero relativa a una spedizione di Shipton del 1964 che, passando di li, forse aveva fotografato proprio lei: la bomba.
Il 19 sembra aprirsi una prima finestra di bello di 2 giorni. Non sapevamo che materiale portare, se da ghiaccio o da roccia; nel dubbio prendiamo tutto, poco, ma di tutto…
Partiamo, e subito capiamo che camminare li è una vera schifezza. Nessuna traccia, cespugli altissimi alternati a paludi melmose e profonde tanto da doverle attraversare in mutande. E tutto questo esteso e moltiplicato per ore e chilometri interminabili.
Il primo giorno era passato, ed eravamo arrivati solo a vedere il ghiacciaio in lontananza col binocolo. Faceva schifo! Mai visto un ghiacciaio cosi rotto, cosi tanti crepacci fitti ed infiniti. Eravamo troppo lenti, non saremmo mai arrivati alla parete andando avanti senza una vera tattica su come muoverci.
Il giorno dopo decidiamo di andare in cima ad una montagna sul bordo del ghiacciaio per vedere se e come tentare di passare al prossimo giro, ma soprattutto per vedere se esisteva davvero la parete.
Uno dei paesaggi più belli e allo stesso tempo severi che abbia mai visto: una sterminata distesa di ghiaccio striato da crepacci e tutto attorno muri di roccia scura, e in fondo la nostra parete, la bomba, bella e imponente come l’avevamo immaginata. In quel labirinto di neve e ghiaccio immaginiamo una linea ipotetica da seguire, dopodiché torniamo verso la nostra baracca.
Il 22 febbraio torna il brutto tempo, e passiamo ad occuparci dei problemi del nostro campo base.
La nostra capanna si trova in una zona paludosa, piena di insetti, forse una vecchia stalla senza mura dove i gauchos portavano i cavalli a morire. Olio di gomito e via: iniziamo a tagliare la legna, inchiodare e costruire via via sempre più parti della capanna per ripararci dalle intemperie, ma anche rendere accogliente la nostra casa temporanea, dove sapevamo che avremmo passato molte giornate di attesa.
L’unico contatto con il mondo è il messaggio con l’aggiornamento meteo che riceviamo da casa ogni giorno, siamo isolati e sappiamo che, per aver una minima possibilità di scalare la parete, ci servono almeno 4 giorni consecutivi di bel tempo.
Attorno al 25 arriva un messaggio che ci fa sperare in una possibilità: “forse entra una finestra di circa 4 giorni”. Le informazioni non sono molto attendibili, ma ci prepariamo comunque a partire.
Il 27 iniziamo a camminare e, trovando i giusti passaggi tra paludi e cespugli, in circa 4 ore siamo al ghiacciaio. Da quel momento inizia la nostra epopea su e giù sui crepacci, che prosegue fino al calare del sole.
Ci fermiamo su un isolotto di terra e tiriamo le somme della giornata: abbiamo percorso circa 40 chilometri, i piedi fanno male ma, per raggiungere la parete, bisogna coprire almeno la stessa distanza percorsa per arrivare fin lì, siamo a metà strada e il morale resta comunque alto.
Dormiamo, ed al mattino ci troviamo sopra la testa un cielo di un colore che non promette nulla di buono, c’è un aria spettrale, quasi spaventosa.
Iniziamo a camminare e ad ogni passo notiamo come le condizioni del ghiacciaio siano diverse da come l’avevamo trovato il giorno prima: la visibilità si è ridotta di molto ed iniziamo a trovare tanta neve, quindi decidiamo per prudenza di legarci.
Andando avanti i crepacci sono sempre più larghi e non sempre visibili, qualche volta una gamba ci finisce dentro.
In linea d’aria la parete è vicina, ma la processione è lunga e difficile, probabilmente anche molto pericolosa. Decidiamo di fermarci un momento, che poi diventa un’ora, e ci prendiamo del tempo per pensare.
La parete sembra ormai prossima e sappiamo che, arrivando alla base entro sera, avremmo buone probabilità di scalarla il giorno successivo. Allo stesso tempo ci rendiamo conto che a quel ritmo ci metteremmo molto di più e che il rischio di cadere in un buco o ferirsi sta diventando troppo alto; un rischio non accettabile in una condizione del genere.
Il momento più difficile nella vita degli alpinisti è quello in cui si deve scegliere di rinunciare. Ed è molto importante saperlo fare.
Come magra consolazione durante la notte inizia a piovere e ad alzarsi il vento. La mattina il tempo non migliora. Con il senno di poi ci rendiamo conto di aver preso la decisione migliore e torniamo ad essere allegri.
Due giorni dopo, con un po’ di anticipo, chiamiamo la barca per tornare a Caleta Tortel. Nella zona non ci sono altre pareti meno complesse da scalare, il cibo in busta e le barrette stanno finendo, ed allora decidiamo di spostarci in Argentina.
Ormai il tempo a disposizione è poco e purtroppo le condizioni anche nella zona di El Chalten non sono delle migliori: riusciamo a strappare al maltempo una salita sulla Guillaumet, giusto per non dire che quest’anno siamo stati in Patagonia senza toccare roccia, poi è il momento di tornare a casa: #backtohome e #stayathome, purtroppo!