“Siamo partiti con un grande entusiasmo verso il progetto delle “torri nascoste” del K6/Link Sar. Poi tutto si è dovuto ridimensionare nell’impossibilità di poterle raggiungere, nonostante tutti i nostri sforzi, per giorni e giorni.
Abbiamo scalato poi su altre pareti e altre montagne, ma le torri sono ancora là, attraenti ma apparentemente irraggiungibili, salvo una remota nuova possibilità di approccio, scoperta alla fine osservando dall’alto quel complesso mondo di rocce e ghiacci, che potrebbe dare senso ad un nuovo tentativo”.
Maurizio Giordani, che ha il dono della sintesi, riassume con queste parole il nostro recente viaggio nel Karakorum. In queste tre settimane ho conosciuto una persona con una passione per la montagna a 360 gradi, dirompente e senza limiti, come poche volte mi era capitato di percepire in vita mia.
So per esperienza quanto sia difficile partire con un grande sogno e poi dover far fronte ad un ostacolo del tutto inaspettato che non ti permette nemmeno di avvicinarti ad esso e per questo sottoscrivo e comprendo le parole di Maurizio.
Tuttavia, sebbene il fatto di non esserci nemmeno avvicinati al nostro grande obiettivo delle Torri lasci un po’ di amaro in bocca, forse perché mi sono aggiunto all’ultimo al gruppo, forse perché queste Torri erano e sono più un sogno di Maurizio che mio… riesco a vedere bene i lati positivi di questa esperienza.
Aldilà di quanto fatto o tentato, sono grato ai miei compagni per avermi permesso di condividere con loro queste tre settimane di alpinismo nel senso più ampio del termine, dove forti emozioni si sono mischiate a profonde discussioni su natura, vita, alpinismo… persino politica, e non sono mai mancate le occasioni di scherzare, o di andare a coricarsi sotto un fantastico cielo stellato pieni di entusiasmo verso ciò che ci aspettava il giorno successivo.
Considero questa spedizione come un punto di partenza, che mi lascia ancora la speranza di raggiungere un giorno queste fantomatiche torri, ma che soprattutto mi ha aperto la visuale su un mondo nuovo e su nuove idee ed obiettivi da raggiungere, arricchendomi sia dal punto di vista alpinistico che umano.
Sul fronte della scalata si può forse dire che abbiamo combinato poco, dal momento che non abbiamo raggiunto nessuna vetta, ma la via con Max Faletti la reputo un gran tracciato, difficile e aperto nel miglior stile possibile. Mi ha impegnato a fondo per due lunghe giornate, sia tecnicamente, nella scalata, sia nella gestione di un terreno e di una parete complessi.
L’unico mio piccolo rammarico resta per la cima inviolata, sopra al campo base, alla quale abbiamo scelto di rinunciare… chissà chi sarà il primo essere umano a metterci piede sopra e a darle un nome!
Probabilmente non noi, ma non importa: anche qui è stata un’avventura complessa, e sono convinto che abbiamo fatto la scelta giusta data la situazione. Il fatto che mi sentissi in ottima forma e con tanta energia non fa altro che darmi buone speranze per i prossimi progetti di quest’estate!
Per un report completo della spedizione, la parola al “fratello Funkie”, Max Faletti:
Mai dire gatto fin che non ce l’hai nel sacco
di Max Faletti
Siamo Maurizio Giordani, Matteo Della Bordella, David Jonathan Hall ed io.
È il 21 giugno 2019 e si parte per le fantastiche ed avventurose montagne pakistane, dopo 3 anni di richieste per il permesso finalmente lo otteniamo, Kondus valley arriviamooo!!!
Meta: le fantastiche e sconosciute torri tra K6 (7282 m) e Link Sar (7041 m) nella valle di Kondus, situata vicino al confine con l’India dove ancora si sta combattendo un’inutile guerra e dove si trovano centinaia di torri rocciose, patrimonio dell’arrampicata mondiale.
Si vola da Malpensa a Islamabad e subito incontriamo uno dei collaboratori della Blue Sky, agenzia a cui da 15 anni si appoggia Maurizio. Di lì dopo qualche ora si vola a Skardu, cittadina nel mezzo del Karakorum, una delle catene montuose del Pakistan.
Una sola notte lì e poi campo base: uno slargo della strada militare che dopo un km finisce al “Camp 1”: un accampamento militare che rifornisce il fronte indiano di giovani pakistani, posizionato sulla morena dove si sviluppa il ghiacciaio.
Non vediamo le torri, il nostro goal, ma senza perdere tempo attraversiamo il ghiacciaio di detriti della Kondus Valley per vedere se si può passare tra i seracchi formati dal ripido ghiacciaio che scende dal k6.
Sembra che a sinistra i crepacci ed i seracchi ci possano dare una chance, ma il giorno dopo ci accorgiamo che è “un palo”: buchi troppo larghi e seracchi che franano ci fermano nell’ascesa alle torri. Quota massima raggiunta: 4400m.
Piano B: proviamo allora a salire la seraccata da destra, piazzando una tenda dopo le vele sul ghiacciaio prima della grande seraccata dove la distesa di ghiaccio fa una curva stretta e probabilmente è meno veloce: anche lì “no way”, altro “grosso palo”, possibilità interrotte da mega baratri di ghiaccio e seracchi. Quota raggiunta: 4500m ca.
Intanto nella parte alta del ghiacciaio grossi seracchi sputano una bella e spettacolare frana di blocchi di ghiaccio giganti che ci fanno tremar le natiche, fossimo stati vicini ci avrebbero annientati. Torniamo alle tende impauriti e sconsolati.
Piano C: “last chance to dance”. Il canale a destra, ripido 45-50 gradi, che finisce in una goulotte in mezzo ad alcune torri che formano un avancorpo che arriva fino a 5200m, dal quale si dovrebbe poi scendere sul ghiacciaio del K6 fino alle torri, site a 4900m circa. Ci si sveglia sotto una nevicata umida di circa 10cm, la quale fa sì che l’anti zoccolo mio e di Mauri non funzioni quasi più: ogni due passi dobbiamo scrostarci via la neve con la picca.
Con uno zaino di circa 20kg a testa saliamo un canalone fino a 4600m, sotto una goulotte abbastanza tecnica che, poi sommata ad altri 600m di salita ripida e 300m di discesa incognita, solo per montare il campo avanzato, ci porta a rinunciare: il goal previsto assomiglia sempre di più ad un auto goal. Dopo queste tre “ragliate” miste a roulette russa, torniamo al campo base con la coda tra le gambe e riposiamo 2 giorni consolandoci con un po’ di boulder e dell’ottimo whisky torbato, portato da Steve Swenson e compagni, lì per tentare il Link Sar.
L’alternativa non fa sconti comitiva. A questo punto, visto che siamo vicino alla “guerra” e che non possiamo andare dove vogliamo, chiediamo consiglio all’ufficiale di collegamento Omer, obbligatorio in queste zone, sulla direzione che avremmo potuto prendere. Lui ci dà un paio di opzioni, non le più comode. Armati di tanta voglia di salire, partiamo quindi per una di quelle torri che si trovano di fronte al campo base e che già Daniele Nardi e Tom Ballard avevano battezzato “Alison Peak”; io faccio coppia con Matteo, Maurizio con David.
Attraversiamo ancora la grossa lingua di ghiaccio piena di dossi, laghetti, torrenti e detriti morenici (si dice che faccia bene ai legamenti, ma non ne sono troppo convinto) ed infiliamo un canale morenico a 40-45 gradi di pendenza: dopo qualche buona ora siamo sotto tre torri di circa 900m.
Siamo su un avancorpo fantastico con dei ginepri di almeno 400 anni contorti dal tempo, ne approfittiamo per fare qualche foto a questo poggiolo paradisiaco che ci apre la visuale su un mondo di aspre torri e di montagne alte dai 4500 ai 7000m. Andiamo a prepararci e a riposare all’hotel stellato della zona, sotto due grossi blocchi.
Il giorno successivo si scala: Maurizio e David si spostano tramite cenge sulla direzione di un monolite, sito sulla cresta del paretone di granito largo circa 2 km ed alto circa 950 metri.
Matteo ed io andiamo sullo spigolo Est, tutte e due le cordate hanno poco materiale: due serie di friends fino al 2 ed un 3 e un 4 a cordata. Subito dopo la prima facile rampa troviamo già un tiro abbastanza difficile in fessura, poi tiri offwidth, anche bagnati dal VI +fino all’VIII- poi avanti fino ad un diedro di lX-, poi a ragliare nella neve inconsistente, e su pareti bagnate a rompere il ghiaccio per salire, visto che per essere leggeri avevamo solo le scarpette d’arrampicata.
Alle ore 19 per fortuna Matteo arriva ad un fantastico bivacco; tramite contatto Radio sentiamo Mauri e David, che dopo aver fatto una decina di tiri alcuni su fessure con dell’erba si sono stufati ed hanno rinunciato.
Il giorno dopo facciamo 6-7 tiri in fessura fantastici, fino all’VIII grado con una breve sezione di A2 ed infine una placca a cristalli di 25m expo, senza protezioni di VII e finalmente si arriva sulla cresta.
Di lì ci si sposta verso il famoso monolite di 150m che segna la cima della montagna. Ci sembra impossibile salire, forse ci vogliono spit o per lo meno sono assolutamente necessari scarponi, ramponi e piccozze per scoprire se giriamo intorno al monolite c’è possibilità di salire da qualche parte.
Ma quel punto decidiamo di scendere e terminare la via a metà della lunga cresta, dedicandola alla natura: “Ma Ma Natura” che ci ha dato l’opportunità di salire clean senza trafiggere la linea elegante con chiodi o spit per 850m di scalata e 700 metri di dislivello fino alla quota di 4850m circa.
Si torna al base con 20 calate a corda doppia da attrezzare, che senza l’aiuto di David e Mauri e le walkie talkie, avremmo risolto lasciando un sacco di materiale costoso in parete.
Il tempo stringe: l’aereo per il ritorno parte tra 6 giorni da Skardu, Maurizio un po’ demotivato va a fare dei trekking per conoscere meglio la zona. Noi riposiamo un giorno, una breve ricognizione sopra il campo.
Matteo “la motivazione“, io e David, dopo una consulta con l’ufficiale Omer ripartiamo per una complessa montagna involata e mai tentata, alta circa 6000 metri o poco meno, piena di magnifiche torri e con canali molto ripidi, proprio sopra il campo base. In 12 ore di camminata, un tiro di M5 ed una cresta aerea, arriviamo 5400m, ma la neve soffice inconsistente, ricca di brina di fondo alla base, nei tratti più ripidi non ci fa passare e si decide di scendere per non incappare in qualche valanga visto l’aumento repentino della temperatura.
Dopo la provvisoria ritirata, si resta a dormire in quota, a 5200m circa, nel pomeriggio scendevano centinaia di scariche di neve bagnata. Io non mi sento troppo in forma, cefalea, nausea, David si ritira e scende la mattina seguente.
Matteo ed io il giorno seguente ci svegliamo alle 2 di notte e facciamo un tentativo, ma siamo rallentati dalla poca consistenza della neve e soprattutto dal mio mal di testa, che mi costringe a gettare la spugna a quota 5593m. Matteo vorrebbe continuare fino in vetta, ma dopo aver proseguito per altri 150 metri da solo verso l’alto, arriva appena sotto l’ultimo salto roccioso e poi decide di scendere. Si rientra insieme al campo base, ringraziando la montagna. Finite le ferie, gabbato lu santo.”
Note tecniche:
MA-MA NATURA
7b max e A2
850 metri di arrampicata e 700 metri di dislivello, seguendo la cresta Est dell’Alison Peak (ca. 5100 metri ancora inviolato), fino sotto al monolite di vetta.
Aperta in due giorni, 2-3 luglio 2019 da Matteo Della Bordella e Massimo Faletti, in stile alpino, senza lasciare spit o alcun tipo di materiale sulla via. La discesa è stata effettuata in doppia lungo la parete Sud-Est.
TENTATIVO sulla parete Sud-Est dell’Alison Peak
di Maurizio Giordani e David Jonathan Hall, percorsi 11 tiri, 350 meti prima di ritirarsi per cattiva qualità della roccia ed erba nelle fessure
TENTATIVO su cima inviolata e senza nome (la battezzerà chi ci arriverà in cima) di 5950/6000 metri
di Matteo Della Bordella, Massimo Faletti, David Jonathan Hall. Salita un’anticima di ca. 5600 metri e poi raggiunta la quota di 5750 metri prima di rinunciare con difficoltà di 70 gradi di neve/ghiaccio ed M5.
PARTECIPANTI SPEDIZIONE
Maurizio Giordani
Matteo Della Bordella
Max Faletti
David Jonathan Hall