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Divine Providence

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Divine Providence. Come spesso accade, l’idea viene quasi un po’ per caso. Una via, una grande classica del Monte Bianco che era per me ancora “lì da fare”, ma che non era uno degli obiettivi principali della stagione. Prima di tutto mi incuriosiva molto di più salire una via, forse meno celebre, ma sicuramente non meno impegnativa (e questo lo posso dire a posteriori), ovvero la Jori Bardill al Pilone Centrale. Mi interessava salire questa via per poter capire quello che stava facendo Marco, per poter provare anche solo da lontano le sue sensazioni in quell’inverno di un anno e mezzo fa,  per conoscerlo meglio attraverso quello che aveva fatto e perché riportare a valle per lo meno parte del suo materiale, mi sembrava un gesto doveroso nei confronti dei suoi cari e dei suoi tanti amici. Dopo aver toccato con mano gli ultimi stessi appigli di Marco, posso solo esprimere tutto il mio rammarico per l’accaduto e il mio grandissimo rispetto per l’impresa (il termine “impresa” per una salita del genere, da solo e in inverno, non è casuale) che stava per compiere. Un modo di fare alpinismo piuttosto diverso dal mio, ma che mi lascia davvero con tanta ammirazione e rispetto. Ciao Marco.

Concluso il capitolo Jori Bardill, durante la discesa dal Monte Bianco penso già al nuovo obiettivo e dico ai miei soci “sapete qual è il problema ragazzi? E’ che il prossimo weekend danno ancora tempo super e ci sarà poco tempo per riposare…”. Il loro sguardo è un po’ stupito, come a dire: “dopo una ragliata del genere pensi già di farne un’altra tra qualche giorno!?!?”. Effettivamente la “fame” di vie e di salite è qualcosa che non mi è mai mancato. Da quella lontana estate del 2005, da cui sono passati 10 anni ed in cui salivo una via dietro l’altra, mi fa piacere vedere che in dieci anni di alpinismo sono restato lo stesso ed ho ancora la stessa voglia di scalare le montagne e di salire vie al mio limite di quando ho iniziato.

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Divine Providence. Le condizioni della parete e fisiche (mie) sono perfette per una salita del genere. Mi viene in mente la bella ripetizione ad inizio stagione di 4 forti ragazzi valdostani: Francois Cazzanelli, Denis Trento, Rudy Janin e Alex Chadel, salita fatta come esame di passaggio per diventare guide alpine (alla faccia di quelli che dicono che a fare la guida pesti solo neve…). Chiamo Alex per chiedergli qualche info sulla via e sulla logistica, non essendo mai stato in quella zona del massiccio del Bianco.

Leggendo qualche racconto della salita, mi colpisce una frase di una ripetizione di qualche anno fa …“Ma la cosa più importante è la persona legata all’altro capo della corda, il tuo compagno. Di lui dovrai fidarti ciecamente per i giorni che verranno, con lui mangerai e dormirai, solo con lui riuscirai a tornare a casa.” E’ proprio vero che quello che ti rimane da tante grandi salite sono poi le esperienze ed i momenti condivisi con i propri compagni. E per una salita così eccezionale non poteva che esserci una compagna eccezionale, una compagna non solo di cordata, ma anche di vita, ovvero Arianna. Di lei mi fido ciecamente e secondo me le capacità fisiche e tecniche per una salita del genere non le mancano. E poi come dice Nico Favresse “una salita fatta con la fidanzata vale doppio J”

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Venerdì 10 luglio raggiungiamo in breve il bivacco de La Fourche, ci riposiamo e ci prepariamo per la salita. La preparazione dello zaino è stata abbastanza minuziosa…so quanta roba solitamente si portano dietro le donne (e Arianna non fa eccezione), ma per questa salita la parola d’ordine è essere light! Decidiamo di lasciare a casa il sacco a pelo e portare solo un sacco da bivacco, tutto ci deve stare in due sacchi da recupero da 35 lt, Kong genius o simili (… scoprirò solo a la Fourche dei 4 pacchetti di fazzoletti di carta e del “piumino leggero extra” che Arianna di nascosto ha imboscato nello zaino…).

L’idea è quella di arrivare al Col Moore per le doppie con le prime luci, quindi attraversare il ghiacciaio della Brenva ed attaccare il Pilier, senza correre, ma senza perder tempo o perdersi in cose inutili. Attacchiamo la via verso le 7; una buona organizzazione ed un po’ di esperienza mi aiutano sulla “ragliosa” parte bassa e verso le 12.30 siamo alla base del famigerato “scudo”. L’avvicinamento è finito, adesso tocca alla parte che ha reso questa via famosa in tutto il mondo: 10 tiri di arrampicata sul sacro e perfetto granito del Monte Bianco. In realtà avevo già letto diverse relazioni, quindi sapevo un po’ a cosa andavo incontro. Sapevo che il secondo tiro, il 7a, era un bastone, ed infatti così è stato ed alla fine anch’io ho pensato “se questo è il 7a la vedo grigia nei tiri dopo…” Avevo letto che il diedro di 7b a volte è bagnato… Ed effettivamente pure in questo caso un po’ di prese bagnate c’erano, ma dalle esperienze sulla Est del Fitz ho imparato che spesso il bagnato è solo un aspetto “mentale” (finchè poi davvero non scivoli…) Arriviamo in breve al tiro chiave, il diedro strapiombante di 7b+/c. Dalla mia ho che sto bene, sono acclimatato alla quota ed in perfetta forma. Parto con la mia serie e mezza di friends attaccata all’imbrago, il tiro è molto fisico e di resistenza, le prese sono buone ma la ghisa sale dopo ogni passaggio. Per stancarmi di meno praticamente rinvio quasi solo le protezioni in loco, piazzando solo un paio di friends in tutto il tiro, so che una caduta finirebbe comunque nel vuoto vista la grande esposizione. Con un po’ di fortuna intuisco subito i movimenti giusti e la magia della scalata mi conduce in breve alla sosta. Arianna, che aveva scalato senza troppe difficoltà i tiri tecnici sottostanti, questa volta mi lancia un po’ di imprecazioni, lo stile fisico e di resistenza probabilmente le si addice di meno…

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Un paio di tiri più tardi arriviamo sotto l’ultima grande incognita, il tetto finale. Il sole ha abbandonato la parete da un pezzo, ormai si è alzato un bel venticello fresco e non posso più nemmeno contare sul fatto che la roccia sia ancora calda. La buona notizia è che per lo meno il tiro è asciutto, la cattiva notizia è che dopo i primi facili metri le mie mani sono già congelate ed insensibili. Ancora una volta mi convinco che freddo e bagnato troppo spesso siano delle inutili scuse, scalare in montagna è così ed il gioco è quello di provare e lottare in modo onesto: o sali o cadi. Ancora una volta mi va bene, sto su. Sono quasi le 19 quando finiamo i tiri dello scudo, e il vento aumenta, continuiamo a scalare bardati nei nostri primaloft alla ricerca di un posto da bivacco riparato. Alla fine, sali e sali, raggiungiamo verso le 21/21.30 la cima del Pilier e, scavalcando la cresta sul lato “Freney”, troviamo un posto da bivacco al riparo dal vento.

La notte insonne nel sacco da bivacco l’avevamo già messa in conto, ma per lo meno, rispetto ad una settimana fa, adesso ho una persona che abbraccio ben volentieri per scaldarmi (senza nulla togliere al buon Luchino sulla Jori Bardill)

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Domenica 12 luglio ci aspetta poi la “grande ragliata” per la cresta di Peuterey fino in cima al Bianco; le tracce nella neve battute dai precedenti ripetitori sono ancora presenti e ci semplificano un po’ la vita. Un’ora ed una settimana dopo la Jori Bardill sono ancora sulla vetta del Bianco. Una grande emozione e una grande salita #DAYSTOREMEMBER

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DSC_0629NOTE TECNICHE:

  • I tempi: rispetto alle tempistiche lette se un internet e senza voler nulla togliere agli altri ripetitori (già portare a termine una salita così è una bella soddisfazione) penso che 3 ore per l’avvicinamento dalla Fourche alla base, 12 per la parete e 4 per arrivare in cima al Bianco, siano delle tempistiche “oneste” e realizzabili con un buon allenamento e senza fare “cazzate”. Sicuramente, a mio avviso, dimezzabili per una cordata affiatata che proceda per lunghi tratti in conserva.
  • I gradi: rispetto alle tante relazioni presenti secondo me il tiro duro si attesta su un “onesto” 7b+, 7a (duro) il secondo tiro, 7a+ il quarto e un buon 7b il penultimo nel tetto.
  • Relazioni: tra le tante relazioni presenti a mio avviso la più chiara ed esaustiva è quella fatta da Bruno Mottini e Marco Majori
  • Attualmente in parete non c’è neve, se si programma di bivaccare occorre organizzarsi adeguatamente con l’acqua
  • Unica nota negativa della salita: la quantità di corde e materiale abbandonata in cima al Pilier d’Angle, una cosa che mi ha dato davvero fastidio. Se partite con l’idea di abbandonare in cima corda, scarpette, materassini, etc per arrivare in vetta al Bianco più leggeri, fate un favore a me e a tutti quelli che verranno: non partite neanche.
  • La pizza de “La Boite” a Courmayeur, sognata per una lunga notte e tutto il giorno successivo, si conferma la migliore di tutto l’arco alpino (forse alla pari solo a quella di Gadmen di Felix), provare per credere!

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