Cerro Torre – Direttissima dell’Inferno, di Peter Podgornik
La spedizione alpinistica slovena alla parete orientale del Cerro Torre, durante la quale dal 6.12.1985 al 21.2.1986 era nata la nuova via Direttissima all’Inferno (1100m,VIII+,A4,A1e,ghiaccio a 95°), era composta dal capospedizione Stane Klemenc, dai membri Silvo Karo, Franček Knez, Janez Jeglič, Pavle Kozjek, Slavko Svetičič, Peter Podgornik, e dal medico Borut Belehar ed il cineoperatore Matjaž Fištravec. Una squadra del genere si è raramente vista in tutta la storia dell’alpinismo. Cosa ne poteva uscire? Una roba mai vista
Abbiamo lasciato Rio Gallegos, nella Patagonia Argentina, a bordo di un vecchio autobus, riempito per metà di tutto il materiale e di tutto il cibo necessario. Così come avevamo sentito il buon cuore degli Sloveni a Buenos Aires, in quel luogo lontano sentivamo il buon cuore dei vecchi immigrati croati. All’indimenticabile discorso dall’amico Ivo Bronzovič, dove non mancava la dovuta quantità di asada e di buon nero, abbiamo dato degna conclusione con vecchie canzoni dalmate al suono della chitarra e con la tacita speranza che nel giro di qualche mese ci saremmo ritrovati nuovamente tutti. »Adios amigos!« per qualche tempo ci girerà ancora per la testa. Partivamo per la pampa sconfinata, era iniziato il tempo per una nuova avventura. Noi tutti, gli alpinisti, eravamo già vecchi conoscenti dalle precedenti spedizioni nell’Himalaya e nell’America Meridionale. Anche il medico ed il cineoperatore, che ci ha seguito fino alla cima, erano buoni conoscitori delle montagne.
Grazie alla loro posizione ed alla vicinanza agli oceani, i monti della Patagonia sono molto problematici dal punto di vista meteorologico. Venti forti e grandi masse di aria umida si mescolano proprio sulle rocce di quei monti fantastici. Mucho viento, mal tiempo, così si regolano i locali, e noi abbiamo conosciuto molto rapidamente la verità di questo proverbio.
Passammo lungo il villaggio di El Calafate e lungo il lago Argentina potemmo osservare meravigliati i colori favolosi delle nuvole serotine, dietro le quali, come la Vergine Maria, facevano la loro apparizione i monti della Patagonia. Nel mezzo della notte l’autobus ci depositò al parco Los Glaciares, presso il fiume Fitz Roy.
Ci svegliammo in un fantastico mattino limpido con una vista da sogno sulle montagne e sulla parete dove nei prossimi giorni avremmo messo alla prova la nostra preparazione alpinistica e psichica.
Al mattino, i lavoratori che costruivano il ponte sul fiume dove nel 1954 la piena si era portata via l’alpinista francese Poincenot ci dettero un passaggio su un vecchio camion. Il capo della spedizione si era accordato con il gaucho Gero per il trasporto di parte dell’attrezzatura e del cibo fino al campo base. Nel frattempo, mentre il gaucho andava per la pampa a recuperare i suoi cavalli, noi trasportammo il materiale più leggero alla base Maestri sopra la laguna del Torre. Lì c’erano già i membri della spedizione slovena a tre (Bogdan Biščak, Rado Fabjan e Matevž Lenarčič) nonché alcuni alpinisti stranieri, tutti lì allo stesso scopo, salire sul Cerro Torre lungo la nota via Maestri per la parete Est. Un paio di giorni prima del nostro arrivo Marco Pedrini aveva effettuato la prima solitaria alla cima ed il suo collega Fulvio Mariani ne aveva fatto le riprese.
Nel giro di pochi giorni tutta l’attrezzatura era arrivata alla base, sul dorso nostro e dei cavalli. In breve arrivammo così, per la morena ed il ghiacciaio, sotto la parete est, che fungeva da via d’uscita dalla parete per gli alpinisti. Alcuni scavavano, altri trasportavano, altri ancora iniziarono a salire. Tutto andava secondo i piani.
Franček e Silvo per primi, il 14 dicembre, attaccarono la parete e si arrampicarono per cento metri di terreno misto fino ai piedi della bastionata strapiombante sotto il grande diedro. In quella parte bisognava fare attenzione nel ghiaccio ai resti delle vecchie fisse dei tentativi precedenti. Il tempo cattivo il giorno successivo impedì di salire. Con Pavlet e Fištra allora ampliammo e consolidammo la truna, mentre gli altri finirono di sistemare la base. Mille e cento chilogrammi di attrezzatura e di cibo erano al proprio posto, era finalmente il momento della parete.
Nonostante il tempo non troppo bello, con Pavlet salimmo la difficile bastionata strapiombante di duecento metri e aprimmo la via verso il grande diedro. Pavle prendeva pazientemente per il fornelletto la neve ed il ghiaccio che gli buttavo già dalla fascia ricolma ed allo stesso tempo discuteva con Fištro, che riprendeva l’azione di pulizia. Il sole aveva riscaldato per benino la parete al mattino, l’acqua ci arrivava addosso in gran quantità e ci tirava via di dosso tutto il calore corporeo. Il problema venne risolto da nuvole scure, che coprirono il sole e vestirono la montagna di un’armatura di ghiaccio e fecero diventare noi degli spettri di ghiaccio.
Il giorno successivo, Slavc e Johan, col tempo incerto, salirono un tratto molto difficile di misto sulla parte strapiombante del diedro, dove per il maltempo e per il riscaldamento che di solito gli fa seguito, se ne vola giù tutto il materiale dalla parte superiore della parete.
In seguito al forte peggioramento del tempo, tutte le squadre lasciarono la truna sotto la parete. Alla base ci riposammo un po’ e preparammo l’attrezzatura per la continuazione. Muti, dovevamo badare al maltempo con pioggia e venti da uragano, e sentire l’impotenza nonostante tutto il desiderio di salire. Borbottavamo tra noi che questa è la vera e propria Patagonia.
Il terzo giorno il Torre si presentò a noi col bel tempo, come un grattacielo appena ridipinto. Il sole aveva iniziato l’azione di pulizia, il che lo sentimmo il giorno successivo, quando cercammo inutilmente la nostra caverna sotto la parete. Dopo lunga ricerca – “sondatura” – con le paline telescopiche, riuscimmo ad aprire il foro d’ingresso che, poi, in seguito alla neve fresca, spostammo di tre metri. Era chiaro che non avremmo potuto lasciare la caverna a nessun costo, il che, in seguito, si rivelò essere l’unica cosa giusta da fare.
Festeggiamo la nostra festa nazionale con una nuova vittoria operativa: Franček e Silvo salirono un bel tratto del diedro strapiombante e sistemarono le corde fisse in un ambiente già un po’ migliore, mentre io e Pavlet sistemammo la truna prima delle vicine feste natalizie. Ce ne rimanemmo in caverna e per quattro giorni ripulimmo il foro nel mezzo di una continua tempesta di neve. Il grande badile verde ha svolto il lavoro già prezioso di tutta l’attrezzatura per la spedizione…Riuscimmo a sopravvivere alla visita delle cordate fuggite dalla via Maestri e infilatesi nella nostra caverna ad aspettare una calda chiacchierata ed un the ancor più caldo. Per la vigilia di Natale con l’attrezzatura alpinistica addobbammo l’albero di Natale. La maggior parte dei pensieri e degli auguri vennero mandati ai nostri cari ed agli amici e gli occhi, invero, erano un po’ umidi.
Lavorammo cinque ore, grazie ad un nuovo miglioramento del tempo e scavammo fuori e ripulimmo le corde sepolte fino ad allora contro la parete. Fecero seguito due nuove lunghezze e la discesa lungo le corde, che si erano già gelate nuovamente, fin sotto la parete, dove ci stavano aspettando nella truna Slavc, Johan e Fištra con bevande calde. Era bello vedere nuovamente gli amici con i quali per cinque giorni non avevamo avuto alcun contatto; le postazioni radio tra la base e la truna non funzionavano a causa dell’ostacolo frapposto dalla cresta El Mocha.
(…)