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Changabang arrivederci

di Luca Schiera

Alcune montagne considerate impossibili fino a poco tempo prima, sono state poi salite in una manciata di stagioni intorno alla metà degli anni 70, complici anche le novità nelle tecniche e negli attrezzi per l’arrampicata su ghiaccio e roccia, ma soprattutto grazie a una nuova mentalità, che ha consentito di concepire la salita di pareti così ripide.

Diverse di queste montagne, infatti, sono state salite con tecniche più o meno classiche per il periodo: penso ad esempio al “nostro” Cerro Torre nel ’74, senza picche da cascata, o alla Torre di Trango nell’estate del’ 76, senza friends, ma con un ginocchio incastrato in un precedente tentativo… E poi ovviamente la parete ovest del Changabang nell’ottobre dello stesso anno, in cui hanno fatto la comparsa le jumar. Boardman racconta nel libro Montagna di Luce che, proprio su quella montagna, le utilizzò per la prima volta.

Forse proprio quel libro, considerato uno dei capolavori della letteratura di montagna, è quello che ci ha ispirato ad andare al Changabang: una montagna iconica, alta 6864 metri, formata da creste affilate e pareti di granito così bianco che a fatica si distingue dalla neve che la circonda.

Il nostro sogno nel cassetto è sempre stata la sua parete sud, per me la più impressionante parete di roccia Himalayana. Purtroppo però quel cassetto è stato chiuso e la sua chiave buttata via quando in piena guerra fredda CIA ed esercito indiano hanno provato a piazzare una antenna spia sul vicino al Nanda Devi (7816m) alimentata ad energia nucleare per tracciare eventuali test di atomica cinese nel vicino Xinjiang.

Leggenda vuole che una valanga durante i lavori abbia fatto fallire l’operazione contaminando probabilmente tutta l’area e tutt’ora il torrente che sgorgando dalle gole del Rishi Ganga (una delle due fonti principali del sacro Gange) fornisce acqua a centinaia di milioni di persone é tenuto monitorato. L’altra ipotesi, più tranquillizzante per l’ambiente e le persone che ci vivono, è che gli americani siano stati raggirato e qualcuno di nascosto sia tornato a casa con del plutonio nello zaino.

Nonostante molte insistenze quindi non c’è mai stata alcuna speranza di avere il permesso per il lato sud del Changabang, ma l’attrazione per questa montagna invece di farci abbandonare l’idea ci ha fatto solo cambiare parete dirigendo la nostra attenzione verso ovest e verso un obiettivo forse ancora più interessante. Invece di provare a trovare una linea di salita avremmo provato quella via già conosciuta ma in stile alpino e in una unica lunga giornata senza bivacchi.

Fatico a spiegare anche a me stesso questo tipo di approccio ma negli anni è stata la mia naturale evoluzione, non mi interessa misurare il tempo impiegato, ma invece un approccio il più minimalista possibile all’arrampicata senza troppo materiale e muovendosi nel modo più efficiente possibile. Penso nel 2014 con Giga su Perestroicrack in Kirghizistan partendo alle 15 dal campo base, alle tantissime salite letteralmente di corsa sulle Alpi e in Patagonia nelle brevi finestre di bel tempo con Paolino ma soprattutto sul Bhagirathi IV con Teo e Giga su una parete molto più difficile del Changabang ma un po’ più bassa di quota.

Nonostante questo ogni montagna è diversa e bisogna adattarsi sempre a nuove situazioni, se la stessa parete fosse stata più bassa sono certo che in poche ore saremmo arrivati in cima, ma come avremmo reagito alla quota? Quanto ci avrebbe rallentato il freddo? Avremmo avuto il coraggio di partire senza materiale da bivacco su una montagna così alta? Adesso più che mai avremmo dovuto analizzare ogni cosa con la logica senza farci sopraffare dai dubbi. Questa cosa quindi maturata insieme a un amico poi scomparso è stata poi rilanciata da Luca e Giacomo con un entusiasmo ancora più grande del mio, così che ci siamo motivati a vicenda per tanti mesi fino a quando abbiamo ricevuto il permesso per questa salita.

Decidiamo di partire prima del monsone in modo di essere acclimatati e pronti a scalare quando le temperature sono più alte e non il contrario, nessuno di noi aveva esperienza di questa stagione ma siamo abbastanza certi che è un requisito fondamentale dato avremmo dovuto salire buona parte della via senza sole o di notte, ed essendo in buona parte di roccia anche senza guanti. Arrivati al campo base sul ghiacciaio Bagini a 4600m a fine aprile, fa ancora molto freddo e in cima alla montagna le temperature oscillano fra i -25 e -30°C. Non ce ne preoccupiamo molto, invece una delle cose che più temevo è quello di stare male in quota e si avvera solo già qualche ora dopo avere montato la tenda. Pochi mesi prima ho preso la malaria e non so come reagirò con l’altezza visto che un altro infortunio successivo mi ha poi impedito di salire di altezza. Per fortuna le cose sembrano sistemarsi in fretta e facciamo una prima salita per acclimatarci un migliaio di metri sopra al campo. Qui prendiamo le prime nevicate che poi ci accompagneranno per tutta la durata del viaggio.

Si parla sempre di stile alpino, leggerezza, fast and light e togliere peso da ogni pezzo di attrezzatura, ma anche in questo caso due carichi da 20kg ciascuno non ce li toglie nessuno.
Approfittando di uno dei giorni peggiori della nostra permanenza andiamo a portare la prima parte di attrezzatura a quello che chiamiamo campo avanzato, ad un giorno di cammino su morena. Da lì si inizia a camminare su neve fino alla base del pendio/canale che porta al colle a 5950m da cui inizia la via vera e propria. I primi salitori hanno raggiunto il colle dalla parte opposta, dal ghiacciaio Ramani: la prima volta che siamo saliti abbiamo visto che da quel lato l’accesso è molto più semplice e ancora una volta abbiamo maledetto gli intrighi geopolitici degli US.
Arrivati al punto di non avere più visibilità lasciamo il materiale sotto a un sasso e facciamo ritorno al campo base sotto ad una copiosa nevicata, comunque sodddisfati per avere fatto il possibile.
Il passo successivo, dopo qualche giorno di riposo, è quello di portare la restante parte di attrezzatura e di cibo al campo avanzato, dormire al colle e poi salire un pezzo di via sia per verificare la fattibilità del piano, che è ancora tutta teoria, e sia per finire di acclimatarci.


Da qui in poi però le cose iniziano a non andare come speravamo. Troviamo un unico giorno in cui non nevica ma arriviamo al colle con un vento troppo forte anche solo per fermarci lì, di scalare non se ne parla. Scendiamo investiti in continuazione da lunghi spindrift.
Ora la nostra fiducia inizia a vacillare, da una parte ho la quasi certezza che avvicinandoci a giugno avremo l’occasione di provare a salire ma i fatti sembrano dimostrare il contrario tutti i singoli giorni e siamo costretti ad aspettare lunghe giornate al campo base non avendo alternative.

Verso la fine di maggio con gli ultimi giorni disponibili prima del monsone proviamo a salire di nuovo al colle e da lì provare a salire la parete, consapevoli di non essere acclimatati a dovere per salire come vogliamo. Essere in tre ci permette di dividersi le parti più faticose, ma allo stesso tempo ci rendiamo conto che aumenta del 50% la probabilità che qualcuno potrebbe sentirsi male per la quota costringendo tutta la cordata a scendere.

Il programma, ampiamente discusso ma che siamo pronti a cambiare, prevede che io salgo la prima parte della via su roccia, a Luca toccherà la parte centrale di roccia e misto e i tiri finali di ghiaccio a Giacomo. In questo modo dovremmo dividerci la dose di sforzo e di freddo in parti uguali sia fra chi scala da primo senza zaino che fra chi segue con 6 o 7 kg in spalla. Battere la traccia si rivela un’operazione estremamente faticosa che si dividono Giacomo e Luca, forse preludio al pendio finale 1400 metri più in alto.

Non ce ne preoccupiamo per il momento e piazziamo la tenda su una piccola piazzola dove passiamo le successive 19 ore sotto ad una leggera ma insistente nevicata. Il problema di questa via è che specialmente la prima parte è di roccia molto appoggiata, la neve va quindi a riempire le fessure e ad apoggiarsi sulle placche lisce rendendo impraticabile oltre che indistinguibile la via di salita. Al mattino successivo quindi in un momento si schiarita realizziamo che abbiamo probabilità prossime allo zero di salire, oltretutto con queste condizioni siano lentissimi e rischiamo di farci sorprendere dal vento a metà parete il che renderebbe la discesa estremamente complicata. Non ci resta che scendere.


Normalmente dopo avere preso una mazzata di questo tipo serve tempo per metabolizzare gli eventi, valutare errori e punti di forza, capire cosa c’è stato sotto al nostro controllo che si potrebbe migliorare e cosa invece non dipende da noi e infine ritrovare la motivazione per provare un’altra volta.
Ora, non avendo nemmeno messo le mani sulla roccia, la curiosità è rimasta altissima e già mentre scendiamo in doppia discutiamo di un prossimo tentativo.

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