Il 2020 per me è stato l’anno alpinisticamente più sfortunato di sempre: ho messo molta energia in alcuni progetti che poi, ognuno per diversi motivi, non sono andati come speravo. L’impegno a vuoto ha reso tutto ancora più frustrante, ma non mi sembra il caso di lamentarmi troppo visto cosa è poi successo nel mondo e nella nostra regione in particolare, ho pensato che se non altro sono stato un bel po’ di tempo dove mi piace, sono stato in salute e prima o poi girerà tutto per il meglio. Faccio quindi un elenco (parziale) di fallimenti, visto che si vedono sempre i successi altrui può fare bene al morale vedere che non è proprio sempre così.
A gennaio inizio con Dimitri una via sulla Parete Rossa sopra Lecco, quando dopo alcune giornate di apertura iniziavo ad ingranare e ad avere una buona forma mollo l’arrampicata e parto come ogni anno per la Patagonia, a metà febbraio. Sognavo, e temevo allo stesso tempo, questo viaggio da diversi anni: non era il nostro piano iniziale infatti, ma non avendo alternative abbiamo avuto un buon motivo per provarci.
Il piano era quello di raggiungere una parete trovata per puro caso da una immagine, anzi un’ombra, satellitare in mezzo all’enorme e inesplorato Campo de Hielo Norte. Oltre ad un passaggio di Shipton 60 anni prima, non ci era forse più stato nessuno da quelle parti, eccetto due scalatori svizzeri (di cui uno sparito dentro ad un crepaccio).
Eravamo in tre: ovviamente con Paolo Marazzi e in aggiunta Giacomo Mauri, forse il migliore giovane scalatore lecchese e non solo.
Sentivo un po’ di responsabilità, qualsiasi cosa sarebbe potuta andare male anche solo per un piccolo particolare,
ma provavamo un’attrazione magnetica per quella zona visitata l’anno prima con Paolino: al primo impatto ci era sembrato così ostile che sembrava di essere stati su un altro pianeta, poi però ci eravamo tornati ed eravamo riusciti a salire la montagna che volevamo facendoci cambiare la prospettiva.
Alla fine non avevamo fatto errori, ma comunque non abbiamo mai avuto l’occasione di toccare la parete. Dopo due tentativi, di cui uno da 90 scomodi km a piedi eravamo ritornati indietro. Nel frattempo arrivavano via satellitare a Paolino le notizie surreali sulla diffusione del virus, non gli credevamo troppo ma rientrare in anticipo era stata una buona decisione: avremmo perso il passaggio in barca e probabilmente passato l’inverno mangiando bacche e radici.
Senza più un piano ci spostiamo qualche giorno a Chaltén dove saliamo il giorno dopo essere arrivati la Brenner-Moschioni sulla aguja Guillaumet.
Tornati miracolosamente a casa prima di rimanere bloccati in Sudamerica passo due mesi chiuso con la mia ragazza nei nostri 37mq in centro a Erba a fare pulizie negli angoli più nascosti della casa, mettere piede fuori dal cancello significava il linciaggio.
Per la primavera avevo già deciso di tenere in disparte per un po’ l’arrampicata e di migliorare volando il più possibile con il parapendio. Passo invece le giornate in casa e lunghe ore a guardare le nuvole, pare sia stata la stagione per il volo più bella degli ultimi 20 anni. La via iniziata con Dimitri a Lecco rimane in sospeso ma per fortuna avere un obiettivo mi da la motivazione per allenarmi: la fessura in val Romilla, al mio massimo limite fisico e anche mentale visto che si può provare bene solo quando è anche il momento di farla.
Arrivo a inizio estate nella giusta forma, arriva anche la rarissima giornata in cui è asciutta (non ce ne sono più di 2 o 3 all’anno) e capisco che non è una occasione da sprecare, scalo bene e all’ultimissimo dei 70 movimenti cado fra i rami dell’acero sottostante il tetto. Non ho mai sentito così tanto dolore per lo sforzo e quando scendo mi sdraio senza togliermi le scarpette perchè non ci riesco. Per un po’ di giorni rivedo quel volo ogni volta che chiudo gli occhi per dormire, mi passa solo quando realizzo che fino all’anno successivo non ci sarà più un’altra occasione per riprovarci.
Questo mi fa entrare in un periodo buio in cui vedo solo insuccessi, tento più volte un lungo giro fra le cime del Masino in parapendio ma qualcosa va sempre storto, provo alcune vie che tenevo da parte da tempo ma succede sempre qualcosa, e infine salta anche il viaggio che avevamo programmato con Teo.
Ripeto diverse vie in val di Mello e alta val Masino, poi appena si scioglie la neve salgo in val Torrone con Matteo Colico, anche se sarà una corsa so che passeremo due belle giornate. L’idea è di aprire una via sulla bellissima parete est del pizzo Torrone Orientale, ma al posto che fare il sentiero facciamo tutta la lunga cresta del Cameraccio (Fuori di Cresta). Siamo molto affiatati e letteralmente corriamo su e giù dalle varie torri di granito, superiamo la storica placca Gervasutti e nel primo pomeriggio arriviamo al passo dove ci fermiamo per studiare la linea da seguire sulla parete. Il giorno seguente però deviamo dalla linea che pensavamo perchè non è proteggibile a friends ma seguiamo una linea di bellissimi diedri verticali o in leggero strapiombo di fianco a quella, pensando sia la via di Taldo e Zamboni del ’60 avendo trovato alcuni chiodi e cunei sulla linea di salita. Quando si interrompono trovo un passaggio di 7a sprotetto, prima di riprendere il diedro e poi lo spigolo per la cima. Non ho mai capito di chi erano i chiodi.
Nelle settimane successive ho fatto diverse visite alla val Torrone con Berni per provare la via di Simone alla Meridiana, mi mancava da salire in libera il tiro chiave lungo il tetto di 30 metri, sapevo che non era il mio genere di arrampicata ma speravo comunque di riuscire a fare dei buoni tentativi, invece ero sempre fermo su alcuni movimenti che non riuscivo a fare quindi abbandono per il momento l’idea. Sempre con Berni tentiamo in libera un’altra via in fessura in alta valle trovando un vero capolavoro di via a incastro ma senza più trovare il giorno giusto per tornare insieme a provarla a stagione ormai conclusa.
L’altra via che avevo in mente da molto tempo, insieme a quella a Lecco, era una linea sul Qualido in quella che mi sembra l’ultima grande zona libera della parete, una striscia di roccia lavorata nera che termina 700 metri più in alto con un tetto orizzontale. Siamo io e Nic Bartoli, l’idea è di aprirla in stile alpino con il compromesso di fissare solo una corda alla base. Vogliamo chiodare il meno possibile ma visto il caldo e l’esposizione della parete, è scalabile solo per poche ore prima di sera. Facciamo diversi viaggi o prima dell’alba o a metà giornata per cercare l’aderenza e l’equilibrio sui cristalli che miracolosamente ci fanno passare sul primo tiro. Poi arriva la temperatura giusta, ormai a ottobre, facciamo tre giorni in parete dormendo in portaledge riuscendo a raggiungere la grande cengia a metà parete. Scendiamo questa volta soddisfatti, sotto la neve però questa volta (!), ma per finire anche la seconda parte della via dovremo aspettare la primavera, non ho mai visto un cambio di stagione così repentino.
Subito dopo ritorniamo sugli strapiombi della Parete Rossa io e Dimitri, sento il brusco cambio di pendenza negli avambracci abituati da mesi alle placche, quattro giornate dopo comunque finiamo la via e possiamo iniziare a spaventarci provando i tiri in libera.