Ogni tanto, quando sono da solo in macchina, mi vengono in mente degli amici e semplicemente li chiamo per sentire come stanno. E così: «ciao Luca, tutto bene?»
Se qualcuno pensava a inizi più complicati, racconti epici o altre questioni si sbaglia. Questo viaggio per me nasce da una semplice chiamata a un amico che non sentivo da un po’, il Vallata.
Lui e Martinelli erano già praticamente sicuri di andare, ma cercavano altri componenti, anche per abbassare i costi fissi del viaggio. Si, perché comunque si decida di andare, nel Sahara servono minimo due fuoristrada con relativi autisti. L’ipotesi che un mezzo si rompa o si insabbi e non ci sia un backup non è pensabile!
E così, a neanche un mese dall’innocente telefonata sono alla Malpensa col Martinelli, Vallata ci aspetta ad Algeri e non abbiamo ancora ben chiaro cosa andremo a fare. Si, perché sia Federico che io uscivamo da un periodo lavorativo intenso e non abbiamo avuto tempo per documentarci in maniera appropriata. E comunque anche volendo le informazioni erano poche e non molto precise. Le uniche descrizioni un po’ in grazia di Dio mi erano arrivate da Vago e Pedeferri, che nel 2002 erano stati nella zona, dedicando però il più degli sforzi all’apertura di una via nuova al Garet. Vallata invece era riuscito ad acquistare una vecchia via di Thomas Dulac, aggiornata al 2005! Comunque sia ormai siamo in ballo e andiamo! Delle hostess nella zona degli imbarchi ci vedono andare verso il gate dell’Algeria e ci dicono «cosa?!? In Algeria? Ma siete matti? Cosa andare a fare? NESSUNO va in Algeria!». Ci mettiamo a ridere… cosa vuoi dire? All’aeroporto di Algeri dopo un po’ di lungaggini burocratiche ci riuniamo con Vallata e partiamo alla volta di Tamanrasset.
Siamo decisamente gli unici non algerini a bordo. E infatti alla nostra destinazione veniamo prelevati dalla polizia e per via del nostro inesistente francese non capiamo cosa vogliano. Dopo qualche quarto d’ora di sguardi perplessi e grazie all’aiuto delle nostre guide capiamo di essere graditi ospiti e che proprio per questo ci scorteranno fino al nostro alberghetto. Gli chiediamo come mai? «it’s super safe, don’t worry» ci ribadiscono. Ma una camionetta di militari davanti e una dietro formano il nostro convoglio. Arriviamo all’albergo verso mezzanotte, ci congediamo dai simpatici militari e dormiamo. Domani si parte per il deserto.
Facciamo un po’ di spesa in paese e via, il nostro menù di scalatori prevede un giro nella zona di trachite a nord di Tamanrasset e poi di spostarci verso ovest, nelle le zone del granito, con l’idea di esplorare un po’ e, nel caso ci fosse stato spazio, di aprire qualche via nuova. E si comincia subito con un iconico tacco Ihaghen dove ci cimentiamo in una delle classiche per prendere confidenza con la roccia, le temperature e le esposizioni. Le notizie che avevamo erano poche e confuse. C’era chi diceva di prepararci a temperature estreme, escursioni termiche da inferno dantesco e altre leggende. Per cui con la mano sempre sul freno a mano abbiamo mosso i primi passi nel deserto, andando a scoprire cose abbastanza ovvie e altre un po’ meno. La prima è che l’umidità è ovviamente inesistente e che, anche se c’è caldo, non si suda, c’è quindi sempre un buon grip! La seconda è che l’escursione termica nel deserto è forte ma non estrema come alcuni dicono. O quantomeno la nostra esperienza è stata di notti fra i 5 e i 10 gradi (a volte anche di più), e giorni tra i 25 e i 28. In tutto questo, spesso le nostre guide Tuareg ci guardano un po’ straniti, sembrano non comprendere appieno ciò che facciamo. Non capiscono perché non vogliamo tornare per pranzo e si raccomandano di portare molto cibo con noi. Ma sono contestualmente estremamente cordiali e rispettosi e malgrado il gap linguistico troviamo subito un’ottima sintonia.
Il secondo giorno ci spostiamo a Adaouda e anche qui partiamo subito per una bella via sulla parete ovest, Le Grand Diedre (Kollop, Troksiar – 1951), che ci impegna per mezza giornata e di qui ci spostiamo alla volta del Tizouyag Sud, che ci richiede una lunga giornata di pista fuoristrada, fra oasi, distese di pietra infinite e qualche raro dromedario che ci guarda incuriosito. All’arrivo la sorpresa è grandiosa. Una bellissima parete di colonne di trachite che ci divide secondo le nostre passioni. Io che sbinocolo solo le fessure, gli altri che guardano più ai pilastri e alle placche. Poco male, ce n’è per tutti. Col Martinelli ci regaliamo una veloce ripetizione della Nouvelle Lune (Franc, Gaudin, Petit, Robert – 2002). La notte è più fresca, qui siamo intorno ai 2000 metri, ma il freddo è ben altra cosa! Abdoullah ci prepara una buona cena e il giorno dopo, ricchi dell’esperienza del giorno precedente tentiamo l’apertura di una nuova via. Partiamo motivatissimi, ma una delle linee logiche era già stata presa da altri, così pieghiamo poco a sinistra e troviamo un pilastro vergine che cominciamo a salire con determinazione. La roccia in qualche punto ci suggerisce cautela. I gradi sono tranquilli, Vallata buca dove serve, anche perché la trachite non è sempre esattamente solidissima e qui non è il caso di farsi male! Ciò nonostante a un certo punto Federico entra in modalità “risparmio spit”, prende il comando della cordata e parte per dei runout che metteranno a durissima prova i nervi dei ripetitori. Nasce così “Federico non ti è amico”. La sera, riguardando i buchi del trapano col binocolo scuoto la testa. Su delle placche improteggibili ci sono runout di 15 metri, a volte forse 20. Certo, la scalata è facile e su prese buone. Ma 20 metri… Queste considerazioni e altre più interessanti su donne e governi allietano la nostra giornata e mezzo di trasferimento verso le zone granitiche del nordest di Tamanrasset, dove visiteremo prima la zona del Tissalatine e successivamente ci dirigeremo verso l’ Éléphant e il Garet el Djenoun. Federico è sempre allegro e canterino, e il nostro autista sembra gradire, ridacchiando felice con forte accento «Adriano Celentano Ah! Ah! Ah!».
Sulla nord della Rhinocéros, dopo la veloce ripetizione di un bel itinerario (Dulac, Touvet – 2003), scoviamo una linea che sembra non essere stata precedentemente percorsa e ci ingaggiamo. Ne esce la divertente A nord di nessun sud, via di stampo decisamente mellico, con un caminone non banale, una traverso in placca facile ma pressoché improteggibile e una bella fessurina che richiede impegno. Tre tiri di carattere per un pomeriggio intenso e uno dei soliti incredibili tramonti dalla cima di una parete, con un panorama pazzesco e le luci che si spengono sul deserto. Incredibile!
Il mattino dopo siamo già in movimento per il gruppo del Tesnou. Un lungo viaggio sulla A1, la Transahariana ci porta a queste incredibili cupole di granito che dominano il deserto, che si estende per centinaia di chilometri in direzione del Mali. Qui riusciamo subito a sbagliare una via. Nel senso che non la troviamo! Vaghiamo per placche di quinto grado alla ricerca della linea, ma i conti non tornano. E infatti dopo un lungo girovagare e consultazioni capiamo di aver sbagliato tutto, troviamo la linea corretta (La porte des sables – Dupuis, Hagenmuller – 1981) e in men che non si dica siamo in cima all’Éléphant, monolite granitico pazzesco. Non sapendo esattamente come scendere, improvvisiamo disarrampicando su quanto di più facile troviamo. La sera scopriamo di essere scesi da una via di quarto e quinto grado! Varrà come ascensione?
In un giro perlustrativo con Abdoullah vediamo poi una linea logica sul versante ovest dell’Éléphant di placche, fessure e diedri che sembra non ancora salita. Pare che tocchi a noi l’onore di provarci! E così partiamo per l’avventura. Dopo una serie di facili fessure delle placche compatte sembrano portare a una diedro e poi a delle placche più abbattute. Una fessurina che sembrava poter essere la soluzione trad risulta inizialmente cieca. Poco male, il Martinelli mette il turbo al piedino e mette tre spit con un obbligato decisamente audace prima di raggiungere la fessura e il successivo diedro.
Un altro paio di tiri con logica mellica ci portano alle placche finali dove improvviso un traverso che ricorda molto quello di Polimagò e… cuociamo l’ultima punta del trapano. Brutti pensieri annebbiano le nostre menti. Saremmo potuti uscire in giornata e invece forse non riusciremo a finire la via. Per fortuna Ayoub è uno spirito buono, e la benzina qui costa un decimo che da noi! Parte per un viaggio della speranza verso Tamanrasset alla ricerca di punte buone. Ci vorrà un giorno intero. Abdoullah ci dice di nutrire poche speranze, che quello che arriva qui è poco e quel poco di qualità bassa cinese.
Il giorno dopo, malgrado tutto Ayoub torna con delle punte buone, e riusciamo a finire la via! Si chiama Les Hommes Bleus e fosse dalle nostre parti sarebbe destinata a divenire una classica. Qui… chi può dirlo? Speriamo di si!
Dopo una giornata di altri giri esplorativi decidiamo di partire alla volta di una parete che abbiamo visto lungo la pista all’andata e che le nostre guide Tuareg chiamano Tufrac (su Google “Al-beik”). Da lontano sembra molto promettente, anche perché fino poco tempo fa si trovava in zona militare. I nostri sogni purtroppo si infrangono contro la dura realtà. A parte una normale, il resto si sviluppa su roccia decisamente marcia e troppo pericolosa, e dopo un paio di tentativi decidiamo che rischiare di tirarci frigoriferi in testa per aprire una via che sarebbe quantomeno dubbia ha poco senso!
Un po’ abbacchiati passiamo questo ultimo giorno nel deserto guardandone i panorami e chiacchierando del più e del meno coi nostri nuovi amici, prima di dirigerci a Tamanrasset dove ci imbarcheremo per tornare a casa.
By Richard Felderer