08-05-2007 Amico Fragile, atto secondo Lo scorso mese Marco Vago (dei Ragni di Lecco) ha realizzato il concatenamento del 3° e 4° tiro di Amico Fragile, la via che aveva completato sul M.te Donneneittu (Codula de Luna, Sardegna) nell’agosto 2006. Il grado dei 55m del tiro è 8b ma soprattutto ora l’immenso strapiombo è stato percorso nel modo più bello.

Sentivo e sapevo che non sarebbe finita lì, che c’era ancora qualcosa in sospeso tra me e quella parete… L’etica del giorno d’oggi imporrebbe la ripetizione in libera integrale ed in giornata di tutta la via, una cosa che sapevo ed ora più di prima so essere fattibile, ma non era quello ciò che mi attraeva di quello strapiombo e non capivo cosa fosse fino a che non l’ho disceso in corda doppia dalla quarta alla seconda sosta percorrendolo interamente in discesa e ritrovandomi, una volta giunto all’altezza della S2, completamente nel vuoto ed a quindici metri da essa con oltre settanta metri di aria sotto il culo.

Durante l’apertura non mi fu possibile gestire i 55 metri di sviluppo di quelle canne, o almeno non ne fui in grado, quindi a circa metà strapiombo piazzai la S3, cioè la sosta di arrivo del terzo tiro che durante la salita in libera, in compagnia di Simone, valutammo 7C+/8A, mentre il quarto tiro risultò essere un altro 7C+. Mi resi conto che se non in apertura, almeno in fase di arrampicata la S3 poteva essere evitata unendo i due tiri in un’unica grande cavalcata su canne con la schiena rivolta verso un grande vuoto, un vero affronto alla forza di gravità.
Non era certo la ricerca di una prestazione, (lo sarebbe stato forse la salita in libera in giornata) e nemmeno la ricerca di un grado estremo (se pensate a quali numeri girino in quelle che oggigiorno sono considerate prestazioni in arrampicata sportiva), semplicemente una ricerca estetica poiché quella S3 sembrava voler “castrare” lo strapiombo, era una vera stonatura nel bel mezzo di quelle canne.

Quindi eccomi nuovamente in Sardegna, in Codula di Luna al cospetto del Donneneittu, ma questa volta in compagnia di Adriano (Selva, n.d.r.) e Riky Felderer (in veste di fotografo). Sapevo che per me non sarebbe stata un’impresa facile, ma sin da subito, oltre che con l’acido lattico, abbiamo dovuto lottare con l’acqua che, a causa delle copiose piogge del mese precedente e filtrando da dietro la parete, bagnava diverse sezioni dello strapiombo tra cui il tratto chiave del terzo tiro e tutta la canna in uscita al quarto.

Al quarto giorno in parete per ben due tentativi le braccia mi hanno abbandonato al penultimo spit, a soli dieci movimenti dalla sosta. Questa fu per me una mazzata morale: benché non ci fossero passaggi estremi non riuscivo più nemmeno ad azzardare anche solo il fatto di staccare una mano per tentare il movimento successivo e, dopo il volo, ero talmente pieno che per cinque minuti non riuscivo nemmeno a staccare lo spazzolino dall’imbrago per pulire le prese. Decisi di lasciare comunque i rinvii sul posto e di sacrificare due giornate di vacanza al completo riposo per tentare un’ultima volta.

Tre giorni dopo tornammo quindi all’attacco ma già al primo giro sentivo che le braccia non giravano bene e si indurivano subito. Inoltre il tiro era bagnato ma soprattutto la testa non reggeva, non avevo più voglia e pensare di concatenare quei 110 movimenti mi dava il voltastomaco. Dopo il tentativo di Adriano, mentre infilavo le scarpette ed ero sempre più scoraggiato e stanco, decisi che quello che mi accingevo ad affrontare sarebbe stato l’ultimo tentativo, poi avrei tolto tutto perché la cosa non mi divertiva più.

Stranamente riuscii ad arrivare in continuità alla sosta intermedia ed a proseguire fino alla base dell’ultima canna di 12 metri che porta alla sosta di arrivo. Decisi che se dovevo tentare il tutto per tutto infischiandomene della stanchezza, degli avambracci gonfi e della vista appannata: se dovevo cadere sarebbe stato perché le mani si sarebbero aperte da sole… ma non successe. Misi la corda in sosta con un urlo liberatorio, felice come poche volte mi era successo e non so se lo ero più per il fatto di aver chiuso un tiro meraviglioso e se per essermi finalmente tolto un grande peso dallo stomaco.

Per quanti di noi è ormai diventata una routine dopo ogni week-end segnare i tiri realizzati sul nostro quadernetto o addirittura nella pagina di Excel, contenti o rimuginanti del fatto di essere più o meno in forma?! Capita però a volte, sempre più di rado e sempre più difficilmente, di voler inseguire un qualcosa di un po’ diverso, un po’ al di fuori dei soliti nostri schemi, un qualcosa di talmente bello ed affascinante da meritare maggiori fatiche e sbattimento da parte nostra e magari anche una partita a dadi con l’incertezza perché, almeno per una volta, stiamo mirando troppo in alto… forse! Ma bisogna pur provare per saperlo, o no?!

Una tazza di the, ad esempio, è un oggettivo piacere quotidiano al quale non facciamo più molto caso, ma presa bella fumante fuori da un rifugio in alta montagna, stretti in un pile che ci ripara dal freddo pungente, di fronte ad un tramonto mozzafiato e magari dopo una faticosa giornata in parete, beh, il contorno trasforma quel semplice gesto in un momento unico ed indimenticabile che porteremo nel cuore per anni. Allo stesso modo ci possono essere arrampicate che trascendono il semplice gesto o la più sterile prestazione perché incastonate in ambienti isolati e splendidi oppure perché sono per noi cariche di un significato particolare. Sono quelle salite che magari meritano il “carattere in grassetto” sottolineato nella nostra pagina di excel o addirittura una foto appesa sulla parete di camera nostra, come quella che ho io.

 

Ed ecco come il nostro amico Riky Felderer ha visto questo viaggio

Ottanta, circa. Poi novanta, novantuno, novantadue. Pausa. Ritorna sulla novantuno. Respiri profondi. Molto profondi, forse troppo, costretti da un diaframma stanco e teso in troppi pensieri.
“Stai attento, mi sa che mollo!”
Non ci voleva, penso io, provo a dire qualcosa ma è tutto inutile. “Duro!!!”
Questa sera non sarà il massimo. Pace! Penso fra me e me che una via è sempre un viaggio nell’uomo! E non sempre sono successi, anzi, quasi mai. Per cui questo vuoto riempito dalla frase “duro!!!” in realtà porta con sé un carico di emozioni, speranze e tensioni non indifferente.
Che arrivi in cima o che le braccia sono talmente indurite da sangue non ossigenato non conta. Quando sei in ballo, balli, e prima, durante e dopo viene fuori tutto. Quantomeno molto.

Arrivo in Sardegna, atterro a Olbia. I miei compagni dei prossimi dieci giorni sono già all’aeroporto ad aspettarmi, almeno spero. Quello che pensavo fosse un normale servizio su una bella via si sta per trasformare in un lungo viaggio nell’uomo, e, almeno da quando faccio questo tipo di foto, è la prima volta che mi succede. L’alloggio è un classico: a Cala Gonne, dove in questo periodo i top climber si incontrano al supermercato o al bar come se fosse il rock master. Tre quarti delle persone che si incontrano sono nomi noti. Curioso. In ogni caso le prime chiacchierate vertono unicamente su un solo argomento: la via, con la “V” maiuscola. Quel progetto che ha spinto tre persone per dieci giorni in una valle della Sardegna. Uno di questi è già la
quarta volta che torna.
Il primo giorno è dedicato a un po’ di allenamento. Il mattino al classicissimo Bidiriscottai, un po’ unto dalla salsedine e dal vento da est. Si susseguono tiri belli a tiri dubbi, e la cosa strana è che la roccia al primo passaggio tiene un po’, ma se molli la presa per smagnesare e la smetti è una tragedia di viscido. Marco non gradisce troppo il posto, ma si vede che la sua mente è da un’altra parte. Tre valli più a sud, credo. La sera si è già instaurato un clima che, per decenza, definiremo “goliardico”, ma chi vuol capire capisce. Marco non è in forma, almeno mentalmente. La pressione che sente sulle spalle è evidentemente molto alta, e i nostri tentativi di tirarlo su con scherzi, battute e cazzate di vario genere non riescono a distrarlo quanto vorremmo, anzi, col senno di poi penso che probabilmente i nostri espedienti abbiamo sortito effetto contrario. Comunque sia alle nove circa siamo in codula. Codula di Luna, per la precisione. Il luogo del parcheggio è segnato come Teletottes. Per gli speleologi è più famosa di New York. Per me un po’ meno: è un’indicazione che compare nel niente ad un certo punto dell’Orientale Sarda. Già a Natale ero venuto su indicazione di Marco a vedere un po’ la parete per inquadrare il problema, capire il posto e organizzarmi al meglio per fare le foto. La parete è piuttosto impressionante. Con la scusa di una romantica passeggiata ho convinto la morosa a fare un  giro di perlustrazione, e ho scoperto un luogo speciale. Alle spalle della famosissima Cala Luna c’è l’infinito, pochi lo sanno e sono contento di essere fra questi. Comunque sia siamo sulla traccia di sentiero che porta alla base. Marco e Adriano hanno già fatto un paio di “giri” per segnare in mente i passaggi e sistemarmi le fisse in un vuoto fuori dal comune. Questa volta però mi sento tranquillo, e non ho nessuna perplessità a risalire il sistema di fisse nel vuoto assoluto del terzo e quarto tiro. Alcuni passaggi sono bagnati, e c’è poco da fare. Siccome poi la chiodatura è abbastanza “allegra” Marco è perplesso.
Il boulder iniziale, un traversino che parte da una canna e si allunga al limite verso sinistra per arrivare ad una banchetta è bagnato, e un eventuale volo lo porterebbe a cadere fin quasi in sosta. Marco stringe e passa, ma la speranza di risolvere il tiro è poco sopra lo zero. Come il morale a fine giornata. Facciamo qualche scatto, almeno per immortalare la linea e si provano i passaggi. La linea è incredibile. Direi da veri intenditori. Un sistema di canne e “schiene di dinosauro”, come le chiamo io, di 55 metri. Evidenti, eleganti, soprattutto continue. Che vanno a morire sotto una fessura diagonale, che rappresenta il tiro successivo. Questo sistema di canne è appeso ad un “pannello inclinato” di calcare chiamato Donneneittu, la parete che offre uno degli strapiombi più incredibili che si possano immaginare. Uno dei motivi di questa affermazione è che è scalabile! Questa meraviglia che abbiamo adesso sotto le mani è una piccola opera d’arte, che io mi limito ad ammirare, ma che qualcun altro vuole scalare senza sbavature nella sua interezza.
Una simile cavalcata si può però trasformare in un’ossessione, anche perché è a 1000 chilometri da casa, due ore dal primo edificio un muratura e settanta metri di
6B sopra il terreno orizzontale. Tutto deve essere perfetto: l’aderenza, l’allenamento, la roccia, la testa. Tutto può diventare un problema. Il più duro da risolvere è l’ultimo, e più passa il tempo…
Le foto vengono bellissime (almeno credo, giudicate voi) e a maggior ragione il carico psicologico peggiora, portando a decisioni affrettate e spesso sbagliate. Riposo? Allenamento blando? Massimali? E il mangiare? Il dormire? La pioggia e il meteo instabili poi ci mettono lo zampino, regalando un problema “oggettivo” che va a sommarsi a quelli soggettivi. Le giornate si susseguono in uno stato di apparente calma, fra tentativi e “falesiate” per fare un po’ di volume, ma la tensione è palpabile. Le sere in cucina, quando dopo un bicchiere le lingue si sciolgono, emerge tutto. L’uomo grande e forte è solo di fronte alle sue debolezze e ai suoi dubbi. È iperteso, non riesce neanche a dormire bene. Non riesce a fregarsene. Ormai i tentativi sono stati molti, troppi pensa lui. La risposta è che siamo pronti a stare qui anche un mese su quella parete, non c’è problema (ovviamente mentivamo), ma è come parlare a un muro. Vuole ascoltare ma non ce la fa. Il cervello sembra abbracciare giorno e notte quei due tiri. E le fibre muscolari partono già contratte da quello che è il motore vero di tutto il corpo. Attenzione, non è un esercizio di retorica, di lotta contro l’alpe, di uomo e montagna del “ventennio”. Sono le emozioni, le sensazioni e l’aria che abbiamo respirato per molti giorni in un appartamento di Cala Gonne e sulle pareti circostanti. È veramente la storia di un uomo che ha spinto sull’acceleratore, sapendo che poteva andare a sbattere contro il muro. Forse sto esagerando, Marco non sa cosa sto scrivendo, ma la mia sensazione è stata questa. Siamo ormai al decimo giorno, e le cartucce da sparare sono una o al massimo due. Le previsioni sono pessime. Domani o va o si torna a casa. L’idea di un insuccesso turba tutti. Le scene in stile Aldo Giovani e Giacomo si susseguono fino alla sera prima, quando capiamo (a dire il vero ce lo ha detto a chiare lettere) che è il momento di cambiare argomento. Roccia e 8b diventano parole bandite dal dialogo. Il concetto è: basto io coi miei pensieri, non cercate di
“caricarmi” perché ogni parola in più è come carico in più.. non rompete i coglioni! Sa benissimo di esagerare, ma ognuno è fatto alla sua maniera, lo sappiamo e la cosa non ci infastidisce affatto.
Di nuovo in parete. Marco non è al massimo, anzi, sembra al minimo. Faccia dura, lineamenti tesi. Ha evidentemente dormito male. I soliti gesti di rito, magnesite, scarpette, cordini, rinvii. Attacca le jumar alle fisse e parte. Decido di farmi un giro mentre fa un “giro” per scaldarsi e vado a guardare cosa c’è intorno. Mi perdo per un sentiero che non so da dove parte né dove arrivi. Di certo scopro posti incredibili, ma il mio cervello è su quella parete, di cui, da spettatore conosco tutti i segreti, le rinviate, i tallonagli, i passi belli e quelli duri. I momenti difficili, soprattutto. Quando ritorno sotto Marco ha finito il primo giro e Adriano è ingaggiato sulla parte finale. Marco mi dice freddamente: “Salgo e levo tutto, mi sono rotto i coglioni, al massimo torno in autunno.” O qualcosa del genere, non ricordo di preciso. Dentro di me penso che potrebbe essere la volta buona, ha buttato fuori la tensione, speriamo…
In sosta non so cosa sia successo, forse una parola di Adriano, forse una sensazione positiva, forse… Cosa ne so io? Comunque sia è partito, ha passato il boulder iniziale (bagnato come sempre) tranquillo. È alla sosta intermedia che sale sicuro. Io sono accovacciato su una roccia di fianco alla parete, alla sua altezza. A volte sento il suo respiro affannoso, gli sbuffi di quando ti attacchi a una presa buona a cercare di “sghisare” un po’. Non mi ero ancora accorto di quanto silenzio c’è in questa valle. “Occhio che vado!” Ormai è a tre quarti, c’è il traverso duro verso la canna finale. Lunga, non difficilissima. Faticosa però, e con un passo chiave alto sopra lo spit che so benissimo essere bagnato. Mi sento come ai rigori della finale di quest’estate. Quando tutto è fermo e non ci sono le mezze tinte: o è si o è no. Trova un riposo, fa affluire il sangue alla sinistra, quella che deve tenere di più. So benissimo che il passo sopra il penultimo spit non è quello tecnicamente “chiave”. Ma di fatto lo è. Trova un momento per raccogliere le ultime energie e probabilmente butta via la zavorra dal cervello. Non pensavo di appassionarmi così a un tiro. È delirante a ben pensarci. Però, anche se distanti sono sicuro che anche Adriano pensa esattamente quello che penso io, ha il diaframma contratto e sa che la riuscita è solo nella sua testa. Quella che secondo me l’ha fregato negli altri tentativi.
<Circa> cento, centouno… ha passato il chiave. Ma sta mettendo male i piedi. Il cervello è già in sosta, ma il corpo no. Uno scivolone adesso sarebbe una tragedia. Non è vero, ma in quel momento penso così. Riesce a recuperare, centotre, quattro, cinque, sei, sette…. Scompare dentro la nicchia dove c’è la sosta e urla, Il nostro “amico fragile” <ma non troppo>!
Un lungo applauso surreale rompe definitivamente il silenzio.

AMICO FRAGILE
Monte Donneittu, Codula de Luna, Sardegna
Sequenza dei tiri: 6b, 6b, 7c+, 7c (8a+ concatenamento 3° e 4° tiro), 7b/+, 6a, 6b+, 6a+
Difficoltà: 7c+ max (8a+ con concatenamento 3° e 4° tiro); 7a obbl.
NB Attenzione ai primi due tiri, su muro verticale a tacche fragili: la chiodatura lunga necessita di molta attenzione, soprattutto all’inizio del primo tiro.
Materiale: due mezze corde da 60 metri (80m per il concatenamento 3° e 4° tiro); 10 rinvii; friends BD dal 0.5 al 3 (ultimi 3 tiri); qualche cordino
Discesa: consigliata dalla vicina via “LINEA BLU”

 

NOTA: un paio di settimane più tardi Rolando Larcher effettua la prima rotpunkt in giornata di tutta la via risolvendo velocemente anche il concatenamento dei due tiri strapiombanti (che inizialmente Marco aveva valutato come 8b) ridimensionandolo ad 8a+. Secondo Rolando questo concatenamento può essere considerato come uno dei più bei tiri di tutto il Supramonte.
amico_fragile
CONSIGLI PER LA RIPETIZIONE:
Per ripetere il concatenamento di L3 + L4 (8B – 55 metri) si consiglia l’utilizzo di una corda intera da 80 metri perché due mezze corda peserebbero troppo rendendo problematici i moschettonaggi nell’ultimo tratto. Utilizzare 16 rinvii con fettuccia lunga per facilitare lo scorrimento della corda.

AMICO FRAGILE
Monte Donneittu, Codula de Luna, Sardegna
Sequenza dei tiri: 6b, 6c, 7c+/8a, 7c+ (8b concatenamento 3° e 4° tiro), 7b, 6a, 6b+, 6a+
Difficoltà: 7c+/8a max (8b con concatenamento 3° e 4° tiro); 7a obbl. minimo.
NB Attenzione ai primi due tiri, su muro verticale a tacche fragili: la chiodatura lunga necessita di molta attenzione, soprattutto all’inizio del primo tiro.
Materiale occorrente: due mezze corde da 60 metri (80m per il concatenamento 3° e 4° tiro); 10 rinvii; friends BD dal 0.5 al 3 (ultimi 3 tiri); qualche cordino
Discesa: consigliata dalla vicina via “LINEA BLU”
Per la relazione: scrivere a http://ragnilecco.com/amico-fragile/

 

Foto: Riky Felderer