Courmayeur, 25.11.2008. Sinceramente non ho voglia di scrivere. Sono in caserma, seduto ai piedi del mio letto e guardo fuori dalla finestra: tutto è coperto di neve e avvolto dal freddo. Vorrei fosse estate.
Apro la cartella Immagini/Estate 2008/Un Poco Locos e avvio la presentazione. Le foto sono ancora tutte in disordine; sia quelle belle, che quelle brutte. “Chissà quando troverò la voglia di sistemarle?!” “Beh…spero mai, vorrà dire che ho di meglio da fare.” Le guardo quasi con distacco, ormai le ho già viste tante di quelle volte che mi sono assuefatto. Oggi però mi concentro su un particolare: i nostri volti. Non sembrano particolarmente belli, sono decisamente sporchi e spettinati, le occhiaie non mancano ed il riflesso del flash ci fa sembrare degli alien, ma allo stesso tempo esprimono gioia, stanchezza, soddisfazione e perché no, anche un pizzico di follia!
“Tutti gli uomini sognano.
Non però allo stesso modo.
Quelli che sognano di notte
nei polverosi recessi della mente
si svegliano al mattino
per scoprire che il sogno è vano.
Ma quelli che sognano di giorno
sono uomini pericolosi
giacchè ad essi è dato vivere i loro sogni
e far si che si avverino.”
T.H. Lawrence, I sette pilastri della saggezza
“Sono da poco passate le sette quando mi siedo su un’immensa lastra di granito leggermente inclinata. Tolgo il casco, stacco il trapano e tutta la ferraglia che mi pesa sull’imbrago e la butto lì. Alla mia sinistra delle strane ed austere foschie avvolgono il Pizzo Torrone Orientale, mentre a destra un bel tramonto fa da cornice ad altre vette del Masino.
In mezzo a questa grandiosa natura sto io: piccolo, stanco ed insignificante climber spettinato, con le mani sporche, sbucciate e screpolate e la faccia cosparsa di sabbia, terra e licheni.
Dentro di me una voce mi dice di respirare a pieni polmoni, di assaporare fino in fondo questi momenti, di fermarmi un attimo e di stampare nella mente tutto ciò che mi circonda. Alzo la testa e cerco di catturare ogni particolare, ogni odore e tutte le sfumature di questi istanti pieni di emozioni.
Tutti i miei sensi sono all’erta e registrano ogni cosa, mentre il mio fucking ego è all’apice dell’autoesaltazione. Così, da solo, mentre sorrido agli ultimi raggi di sole che vorrei non tramontassero mai, mi faccio i complimenti per aver sognato, e poi iniziato, quest’avventura.
“La mente mi dice “Tieniti stretto tutto questo nella tua memoria, ponilo sotto vetro nel tuo scrigno spirituale, questo è oro puro.” E in un istante mi sento straordinariamente ricco.” R.Karl
Qualche minuto più tardi, purtroppo, devo ritornare alla realtà: trenta metri sotto i miei compagni di cordata stanno aspettando e devo fare la sosta. Prendo quindi in mano il buon Makita e lo appoggio alla roccia, dall’alto verso il basso, come se gli volessi bucare la testa, al Picco ovviamente. Mi sento quasi presuntuoso nel compiere questo gesto, né il Tarci, né Koller l’avevano ancora fatto…quindi me ne fotto e schiaccio il grilletto. Il trapano vibra e penetra, poi si ferma…batteria scarica, of course. “Cazzo, ma anche all’ultima sosta non va liscio niente?!”
Venti minuti dopo anche Majo e Giò mi raggiungono.” Peccato che Simo sia andato via, avrebbe dovuto esserci anche lui in questo momento!” Dentro di noi ci sono molti pensieri che non verranno mai tradotti in parole, quindi ci limitiamo a stringerci la mano, ci diamo una pacca sulle spalle, scattiamo le solite foto di rito ed è già ora di scendere. San Martino è ancora lontana, quindi, alla luce della frontale, buttiamo le corde ed iniziamo le doppie.
Non ricordo quante volte al Bar Monica mi sia fermato davanti alla fotografia del Picco Luigi Amedeo inondato di sole. E’ grandioso e paurosamente verticale, stimola la fantasia ed accende la voglia di granito che da qualche primavera mi arde dentro, sempre più in profondità.
Per fortuna non sono l’unico ad avere questa incurabile malattia: anche Giò e Simo si dissetano di sogni e si nutrono di roccia. Questa parete l’abbiamo vista molte volte insieme, poi l’abbiamo scalata per quasi tutte le vie ed infine ci è sembrato logico ed abbastanza ambizioso, specialmente dopo qualche pinta di Guinness, volerci tracciare la nostra.
Verso la fine di agosto, decisamente non all’alba, sotto un sole troppo caldo e con degli zaini schifosamente pesanti io e “il Giuàn” risaliamo la Val di Zocca con l’obiettivo di finire una via alla Punta Vittoria ed aprirne lì vicino. Però spesso accade che non tutto vada come da copione, così capita che il piantaspit non buchi come dovrebbe (30 min per un fix dell’8 ci sembrano troppi), che le pareti a volte franino e che la linea che vorremmo aprire forse è già stata salita.
Fortunatamente dal Rif. Allievi il Picco non è lontano e tentar, forse, non nuoce. Invece, complice una certa presunzione, sulla scia di Motto e Vogler sbattiamo contro un placca liscia, lichenosa e troppo verticale. Più di 3 ore per 5 spit in 20 metri sono troppe e, visto che il peggio deve ancora venire, con una spossatezza mai avvertita prima, chiedo di esser calato in sosta. Giò prova a passare un po’ più a destra, ma ribatte pure lui, quindi con le orecchie talmente basse da restar sotto le nostre 5.10, conciati da far schifo, ma non ancora sconfitti, togliamo tutto e torniamo al rifugio. Tentar può nuocere, meglio ricordarselo!
Il giorno seguente, con la compagnia di Lele “il borellaio”, attacchiamo in un altro punto. “Tra la Taldo ed Elettro ci sta una via”, così aveva detto il “Coach”. Noi siamo lì…beh, forse non è proprio corretto iniziare senza di lui, però vogliamo sfruttare il momento ed il materiale già in zona e, certi della sua approvazione, decidiamo di attaccare. Alla fine del “Day 1” siamo stanchi, ma soddisfatti e rimborsati dalle delusioni dei giorni precedenti: 3 tiri decisamente psicologici ci hanno portano sotto uno strapiombo ad un quarto della parete; ora possiamo scendere, sfamarci con la pizza dell’Anselmo ed alimentare i nostri sogni con qualche buona Guinness.
Il 9 settembre siamo di nuovo “on the road”, anche se, più che personaggi dei libri di Kerouac, sembriamo sherpa nepalesi. Gli zaini traboccano di materiale, il solito sole ci prosciuga i liquidi, gli spallacci ci trapassano le spalle ed i discorsi vanno sempre a finire sul problema che sta più a cuore agli arrampicatori: le donne! Così, grazie alle nostre incomprensioni con il gentil sesso, il ripido sentiero che risale la Val Torrone passa abbastanza velocemente e verso mezzogiorno raggiungiamo la nostra wonderwall. Dopo più di un’ora trascorsa a curare la tintarella, a ristabilire la glicemia e a decontrarre in quadricipite, gli anziani decidono che debba essere il più giovane, cioè io, a ripetere i tre tiri aperti dieci giorni prima.
Mentre scalo il primo tiro, lesto e sinuoso come un gatto di marmo, chiedo a Giò quale malsana etica gli imponga di chiodare così lungo. Ovviamente è una domanda retorica, a noi piace così…anche se ad alcuni può sembrare stupido.
Maura, la compagna di Giò, dice che “L’arrampicata è bella perché hai paura, altrimenti che gusto c’è?” Già, se così non fosse sarebbe come qualsiasi altro sport, solo un po’ più bello perché inconsciamente ti porta in giro per il mondo a vedere posti nuovi.
Invece sono proprio l’incertezza dell’ultimo friend, l’aleatorietà di un passo in aderenza, quel “Ma chi cazzo me l’ha fatto fare?!” pensato sull’obbligato lontano dalla protezione e la paura di cadere con 200 metri di aria sotto il culo a dare alla scalata quel qualcosa in più.
E’ forse per questi motivi, oltre alle innumerevoli sgambate sugli irti sentieri del Masino, che la birra del Bar Monica ha spesso un sapore particolare. Capita così che, se dopo la seconda media l’arrampicata diventi leggenda, alla terza salga al rango di epica ed i vari Achille, Ettore ed Ulisse vengano sostituiti dai nomi dei nostri climbing heroes: Skinner e Piana per il Simo, Harding e Bridwell per il Giò e Potter e Caldwell per me. Nomi che in un corso del C.A.I. non si sentiranno mai nominare, ma che io, semi-giovane freeclimber di provincia vorrei a tutti i costi, ma senza effettivamente provarci seriamente, riuscire ad emulare…almeno una volta nella vita!
Raggiungere la sosta con la gola secca, alla fine di un lunga fessura strapiombante, con l’avambraccio che pompa e senza più protezioni sono forse solo delle situazioni irreali, quasi idilliache, figlie di tante foto, e video, ambientati nella Yosemite Valley o in qualche deserto americano. Ma credo sia grazie a questo tipo di sogni, o incubi (dipende dai punti di vista), che noi tre siamo qui, appesi ad una parete poco conosciuta, con un nome per niente avvincente, che fatichiamo e rischiamo, sempre in bilico tra voglia di runout e buon senso…propendendo più verso il primo, che il secondo.
Alla sosta del terzo tiro il mio compito (Grazie a Dio!) è finito, ora tocca a Giò andare avanti su terreno vergine. Io mi metto il Primaloft e mi siedo in sosta, felice di starmene lì, sotto un strapiombo scaglioso, a parlare di cazzate con Simo ed a incitare l’Onghi che cerca di “rasparsi fuori” da un ostico sbriciolante strapiombo. Dopo un’ora, o forse tre, di sporco e duro lavoro è finalmente sosta. Si fissano le corde e si va a cena. Stavolta niente rifugio, visto che siam poveri si va al Bivacco Manzi. Per l’occasione cucino io; pasta e fagioli, o zuppa ai 5 cereali poco importa. Le buste Knorr hanno un sapore speciale dopo le giornate trascorse in parete: più sabbia di granito hai nelle orecchie e più sono buone, credo funzioni così.
La mattina arriva veloce, ma noi non abbiamo fretta, così verso le 10 attacchiamo i jumar alle fisse: le placche scorrono veloci e piacevoli, i tetti un po’ meno.
Ora è Simo in apertura, prima uno strapiombo fessurato, poi un sinuoso e non facile tiro in placca e siamo già abbastanza alti. Il tempo trascorre inesorabile, cerchiamo di esser veloci, ma qualche intoppo c’è sempre. Una volta si dimentica qualcosa nel materiale, un’altra volta la batteria si scarica dopo tre soli buchi, l’altra ancora il sacco da recupero si incastra ed il tempo vola…come del resto le parolacce!
Dopo una sosta, rigorosamente a chiodi, sulla stessa linea della Taldo, tocca di nuovo a me. Sono gasato, prendo il materiale e parto. Prima un passaggio cazzuto con rischio di atterraggio in cengia, poi un friendino così così, then un bombé che mi preoccupa…vorrei non bucare, ma alla fine buco, desidererei farlo in libera, ma tiro quasi tutte le protezioni, sogno delle fessure pulite, ma sono un po’ lichenose e con qualche ciuffo d’erba di troppo. “E che cazzo, siamo nel Masino, mica in America!”…già, dimenticavo.
Pianto i soliti due fix ed urlo felice, recupero il saccone e soci, fissiamo le mezze e poi si scende. Solita cena, soliti discorsi, tisana al finocchio per digerire e poi Giò annuncia di voler andare a letto a riflettere. 5 secondi dopo dorme, as usual! Io e Simo ridiamo. Intanto dalle mini-casse del lettore cd escono le note dei Door’s. “This is the end è la giusta canzone prima di dormire, vero Simo?” Nessuna risposta, pure lui è nel mondo dei sogni. “Troppo bello girare con questi due: neanche domani ci alzeremo all’alba…alla faccia del duro alpinismo erico!”
250 metri di fisse sono un buon (sur)riscaldamento, ma tanto il prossimo tiro sarà del Giò: 10 m fessura larga, 15 m di rognoso stretto camino in cui strisciare protetti da un friend del 6 ed infine di nuovo all’aria aperta. Quando sbuco dal tunnel sono semplicemente FELICE ed osservo la lama perfetta che si trova di fronte a noi, non oso chiedere di poter tirare, ma i miei 2 amici capiscono lo stesso e mi lasciano fare. “Thank you guys!” Scalo, godo e mi esalto, piazzo un giallo, ridiscendo un po’, attraverso su una vena, tremo un attimo, trovo gli appoggi giusti, faccio un lancettino e raggiungo una nuova fessura. Indeciso se far sosta o continuare, tiro dritto, ringrazio gli ultimi Alien offset che mi salvano il culo e, smanacciando tra muschio e granito, con la corda che non viene, senza più saliva, raggiungo l’agognata cengia. Poco dopo arrivano anche gli altri e, vista l’ora, sistemiamo il materiale nel saccone, spittiamo una sosta intermedia ed iniziamo le doppie.
Mentre scendiamo a valle, con il cielo che si riempie di nubi minacciose, guardiamo orgogliosi e compiaciuti il nostro sacco arancione che, a circa ¾ di parete, fa bella mostra di sé. “Settimana prossima torniamo per l’ultimo round!” di questo siamo certi.
Invece pochi giorni dopo la neve raggiunge addirittura la cima del Precipizio ed il rischio di terminare la via la prossima estate, lasciando il materiale a marcire nel saccone, è un’eventualità da prendere in considerazione. Cancelliamo dunque, a malincuore, il nostro “7-day hard grit trip” al Peak District con il volo già pagato ed attendiamo impazienti: 3 giorni di sole basterebbero per finire la via, ma all’autunno anticipato questo non interessa e ci sbatte in faccia altre 2 settimane di freddo e nevischio fino a metà Valle. “Shit!”
Visto che non può piovere per sempre verso l’inizio di ottobre arriva la nostra last chance: 3 giorni di bello ed isoterma attorno ai 2500. Simone ha qualche problema alla schiena e non vuole peggiorare la situazione e così, visto che trovare un sostituto last second non è subito fatto, stavolta siamo solo io e Giò.
Ci si trova al Sasso, il grip è buono e perder una giornata falesia mi dispiace, così mentre io mi rialleno sui soliti tiri scavati attorno al Remenno, lui sale al nostro deposito materiale.
“Un corpo debole indebolisce la mente.”( Jean Jacques Rousseau), di questo sono convinto, ma è pur vero anche il contrario!!
Qualche ora dopo lo raggiungo, ma il suo sguardo non è come me l’aspettavo. “Mi sa che ci hanno fregato una mezza!” afferma Giò, più incazzato che sconsolato. A questa affermazione e ad una ricerca più approfondita fanno seguito 15 minuti di imprecazioni ed esternazioni varie che ritengo opportuno non riportare, quindi rimettiamo lo zaino in spalla e torniamo in Valle augurando all’autore del furto impronunciabili sfighe ed innumerevoli incidenti in parete.
Dio, forse, non sente tutto ciò che diciamo o, più probabilmente, capisce la nostra ingloriosa situazione, e decide quindi di regalarci un’altra insperata opportunità. Simo è in Francia con Marchino, ma stavolta abbiamo il sostituto: Majo (mio “collega” del Gruppo Militare di Alta Montagna) è l’uomo che fa per noi. Il 14 ottobre risaliamo nuovamente i 1500 metri di dislivello dell’odiosamata Val Torrone, smontiamo le fisse rimaste sui primi 5 tiri, li puliamo, cuciniamo le solite buste che ora cominciano a darmi un po’ di nausea e prima delle 10 siamo già sdraiati nei lettini del Bivacco Manzi…domani si arriva in cima, a costo di scalare con il frontalino.
Per non ripetere tutti gli 11 tiri, arrampichiamo a velocità supersonica il facile “Spigolo Sud” e con una doppia siamo nuovamente in compagnia del nostro fedele saccone. Visto che abbiamo un ospite e non l’abbiamo invitato solo per farci compagnia, sarà lui a salire il prossimo, poco rassicurante, tiro. Il buon Majo non aspetta altro e, salendo la mannaia, una gigante lama dal suono sinistro, a cui fanno seguito tante piccole traballanti lamette, ci regala un bel tiro che è il giusto mix di spirito di sopravvivenza ed ottimismo giovanile.
Il next pitch è meno impegnativo e Giò, nonostante si sia appena fratturato il mignolo del piede nel tentativo di spostare una lastra instabile nel tiro precedente, lo liquida un 30 minuti con un paio di friend e due chiodini. Ora sopra di noi sta la “Banana Crack”, una curva fessura strapiombante a sinistra della headwall che si vede dalla base della parete. Con una buona serie di passaggi in artificiale salgo il più velocemente possibile questa magnifica lunghezza chiedendomi, preoccupato, quanto dovrò allenarmi per fare in libera tutti i 14 tiri che stanno sotto di me. Raggiungo lo spigolo decisamente felice, faccio sosta, recupero il sacco e, mentre assicuro gli altri scruto il prossimo breve ed apparentemente non troppo difficile salto di roccia che ci separa dalla vetta. Majo arriva prima, mentre Giò, con cura ed amore paterno, si ferma a lungo a pulire la fessura ancora un po’ scagliosa. Quando giunge in sosta è abbastanza provato, sia dall’intenso spazzolamento che, soprattutto, dal dolore al piede e mi lascia il via libera per l’ultimo runout. Il primo tiro l’ha aperto lui, ora vado io ed il cerchio si chiude. Majo capisce la situazione e sa quanto ci tengo, quindi si mette in disparte e mi lascia fare.
Parto deciso, salgo una facile rampa, mi alzo il più possibile, metto un fix salvavita e provo la libera: 4 tentativi ed altrettante cadute di traverso quasi rasoterra mi inducono a staffare. Mentre tolgo il piede dalla fettuccia mi accorgo che la rampetta appena percorsa attende un crash test con le mie caviglie, il passo è cazzutello ed aleatorio e, pur sapendo che non può far niente, chiedo a Giò di stare attento; quindi respiro e lancio, poi chiudo, spallo, striscio, ravano ed infine mi ristabilisco: “Whow…Safe!”. Ancora un po’ tremante e con l’adrenalina che mi rende euforico, ma non scemo del tutto, prendo il trapano e, trasportato da un briciolo di buon senso che forse rinnegherò, mi abbasso il più possibile e buco. Cinque minuti dopo le mie scarpette sbriciolano frettolosamente gli ultimi licheni della facile placchetta finale.
Un sogno è appena finito, ma la mente ne ha già pronti molti altri ed altri ancora…e fortunatamente il mondo è ancora pieno di tante belle pareti sconosciute, lontane dall’affollamento delle funivie e senza la nauseante/rassicurante/democratica/opprimente/riduci emozioni presenza dello spit ad ogni metro che aspettano solo che qualche arrampicatore sognatore si avventuri su di esse.”
E’ nata così “Un Poco Loco”: in linea con la tradizione, un po’ “Ceca” nelle protezioni, alla Tarci (Tarcisio Fazzini, ndr.) nello stile, impegnativa, varia nell’arrampicata e decisamente bella bella, ma questo non è merito nostro.
“Ah, dimenticavo…un’ultima cosa: ”NON SPITTATE LE FESSUREEEEE!!”
STARRING
Io: Davide Spini
Giò, nonché Onghi o Giuàn: Giovanni Ongaro
Simo, il Coach: Simone Pedeferri
Majo: Marco Majori
Lele, detto “il Borellaio”: Gabriele Tirinzoni